martedì 23 novembre 2021

THE RIDER

 


di Chloé Zhao

USA, 2017

Il cinema di qualità dà sempre enormi soddisfazioni, soprattutto quando si scovano delle chicche proposte dalle rassegne locali. The Rider è un vero e proprio gioiello.

Attenzione, però, non è un film facile! Assenza totale di musica e pochissimi dialoghi portano in primo piano spazi immensi e solitari, cavalli e speroni, cowboy e rodei, oltre che disagio e incapacità di comunicare dei protagonisti.

È questo il caso di Wayne e Brady, padre e figlio, che non hanno vita facile nella Pine Ridge Reservation. Vivono in una casa mobile sul terreno di una riserva indiana del South Dakota, terra arida e costellata di contee molto povere e in cui i problemi di alcolismo e gioco d'azzardo sono molto diffusi tra i nativi e i bianchi. Questi problemi affliggono anche Wayne, padre assente e incapace di occuparsi del figlio maggiore e di Lilly, la figlia autistica, con cui Brady ha un rapporto protettivo.

Il ragazzo è una ex stella dei rodeo in convalescenza: a seguito di un grave incidente durante una gara, è costretto a rinunciare ai riflettori, anche se non abbandona la sua più grande passione, addestrare i cavalli. Il suo carattere introverso e paziente gli permette di entrare in simbiosi con questi splendidi animali e addestrare gli esemplari più selvatici.

Ben presto, però, le gravi lesioni subite durante l'incidente gli impediranno anche di occuparsi dei cavalli e Brady dovrà ripiegare sul lavoro di commesso in un discount, anche se il suo spirito inquieto gli impedirà di accettare questa situazione.

La monotonia che regna nelle vite di Brady e dei suoi amici della riserva viene spezzata dalle visite che fanno a Lane Scott (che nel film interpreta se stesso), ex celebrità dei rodeo da toro e ormai paralizzato, ricoverato in una clinica. Le spavalderia di Scott e le sue imprese pericolose sono impresse nei video su You Tube, ma sono solo un lontano ricordo.

Le immagini dei filmati di Scott scorrono sotto i suoi occhi vividi, nei quali si legge la voglia di rimontare in sella ai tori, quasi non fosse consapevole che ciò non potrà accadere mai più.

La voglia di rimontare in sella e gareggiare divora anche Brady, ma il ragazzo deve fare una scelta tra la sua vita e la sua passione. Quale sceglierà tra le due?

Non vi resta che guardare The Rider per scoprirlo e per immergervi nella poesia di immagini che la regista è capace di evocare.


martedì 11 maggio 2021

NOMADLAND

 


Chloé Zhao
USA 2020

Il mio ritorno in sala cinematografica dopo il lock down non poteva che essere inaugurato nel migliore dei modi: Nomadland racchiude tutto quello che mi piace in un film, a cominciare dalla straordinaria interpretazione dell'attrice protagonista, Frances McDormand, fino ai paesaggi solitari dell'America di oggi.
I film sono la mia passione e andare al cinema a vederli è per me un'esperienza totalizzante, un vero e proprio momento irrinunciabile per godere appieno del lavoro di un regista. Quando poi, condividi questo piccolo piacere della vita con la persona amata, andare al cinema diventa quasi un rituale: le luci si abbassano, ci si augura a vicenda una buona visione, magari sgranocchiando M&M, e si conservano i biglietti dei film preferiti per usarli come segnalibri.
Il film non ha una trama vera e propria: seguiamo semplicemente la protagonista, Fern (Frances McDormand) per un anno della sua vita itinerante, che inizia nel periodo delle festività natalizie con un lavoro stagionale presso la sede centrale di Amazon. La donna, come preferisce lei stessa definirsi, è una “senzacasa” (non una “senzatetto”, precisa) che vive in un furgoncino convertito ad abitazione, spostandosi di luogo in luogo, in base ai lavori stagionali che riesce a trovare in giro per gli Stati Uniti.
Fern è da poco vedova e proviene da una piccola comunità del Nevada, Empire, dove la gente è rimasta senza lavoro per la crisi economica del 2008. Dicembre porta con sé un picco di ordini on line, per cui Fern, come tante altre persone disoccupate e senza una casa, trova impiego temporaneo alla multinazionale americana, e alloggia nel suo furgone nelle piazzole di sosta messe a disposizione dall'azienda per i suoi dipendenti che non possono permettersi un'abitazione. Freddo, solitudine e scomodità si percepiscono con maggiore eco immersi nel contesto asettico e piegato alla produzione senza sosta del colosso delle vendite on line. Non servono parole o dialoghi, di cui il film in generale è scarno, per criticare il sistema di disuguaglianza in cui viviamo: a parlare sono le immagine e la condizione dell'esistenza del popolo di invisibili e silenziosi.
La donna, terminato il contratto con Amazon, vaga in cerca di altri impieghi, e viene a conoscenza del raduno di nomadi a La Paz County, nel deserto dell'Arizona. Questo singolare insediamento in mezzo al nulla è organizzato da Bob Wells (figura che esiste veramente nella realtà), uno stravagante guru della vita minimalista e nomade.
Qui Fern, seppure solitaria e indipendente, viene in contatto con gente simile a lei. Conosce persone che abbracciano la vita nomade per scelta e chi, nella maggior parte dei casi, per necessità.
A poco a poco si apre anche con Swankie, un'anziana donna che le insegna i trucchi per sopravvivere nella natura arida del deserto, senza comodità, e come organizzarsi al meglio per prevenire ogni sorta di imprevisto.
Fern è forte e temprata come i tanti cactus che la circondano nel deserto: sopravvive alle condizioni più estreme e disperate, anche quando, terminato il raduno, si rimette in viaggio alla ricerca di nuovi impieghi temporanei.
In questo lungo anno di spostamenti, dal Nebraska al Sud Dakota, Fern avrà anche modo di tornare, seppur per pochissimo, a contatto con la vita “normale” di chi ha un tetto sulla testa: prima in California, dalla sorella, alla quale chiederà un prestito per riparare un guasto al van, e successivamente dalla famiglia di Dave, un uomo nomade conosciuto lavorando in una tavola calda e che ha deciso di fermarsi in pianta stabile dal figlio. Fern, tuttavia, non si farà lusingare dalle comodità offerte dai suoi cari e non abbandona il suo van.
Fern è irrequieta, a tratti malinconica, eppure è tenace e propositiva di fronte a quello che la vita le riserva.
Il ciclo si chiude, inclemente, con il ritorno al lavoro stagionale da Amazon, pronta a lucrare sulle richieste natalizie degli utenti di tutto il mondo.
Nomadland ha vinto innumerevoli premi – un Leone D'Oro, due Golden Globe e tre Oscar – ed è certamente un film che consiglio, seppure non sia per niente di facile visione: introspettivo, silenzioso e meditativo, il film richiede un approccio empatico che predisponga il nostro animo a cogliere la bellezza di un fiore colto nel deserto.

lunedì 9 novembre 2020

L'UOMO CHE NON C'ERA

 


di Ethan e Joel Coen
USA, 2001

Una casa nei sobborghi di Santa Rosa (California), un lavoro stabile, una bella moglie, cene e feste varie con amici e conoscenti col sorriso stampato in faccia: una vita incredibilmente ordinaria, da cartolina pubblicitaria, agli albori degli anni Cinquanta. Chi non la vorrebbe?
La stabilità può però diventare una trappola e una fonte di forte insoddisfazione. E allora, perché accontentarsi dell'ordinario, quando puoi far soldi, quelli veri, non quelli che ti fanno vivere dignitosamente ma senza concedersi fronzoli? Nel 1949, anno in cui il film è ambientato, il nascente “sogno americano” suggerisce che chiunque lo possa fare, tutti possono azzardare e mettersi in gioco.
E' quello che deve aver pensato Ed Crane (interpretato da Billy Bob Thornton), silenzioso barbiere che lavora nel negozio del loquace cognato Frank. Le sue giornate trascorrono immutate: al lavoro Ed viene stordito dalle chiacchiere dei clienti e di Frank, mentre a casa condivide momenti privi di comunicazione e sentimenti con la moglie Doris (Frances McDormand).
Doris, all'opposto del marito, è invece una intraprendente lavoratrice che ambisce a fare carriera nel grande magazzino di David "Big Dave" Brewster (James Gandolfini), ed è disposta a tutto pur di compiacere il suo capo.
Mentre Doris è presa dai suoi progetti lavorativi ed extraconiugali, l'incontro casuale tra Ed e un misterioso uomo d'affari giunto in città, Craighton Tolliver, darà il via a una serie di eventi che, con l'effetto del domino, travolgeranno la vita di Ed e di sua moglie, sgretolandola come roccia friabile.
Tolliver convince il taciturno barbiere a buttarsi nel mondo delle catene di lavanderie a secco, un settore ancora inesplorato all'epoca. Per entrare nell'affare, Ed deve però procurarsi la somma di diecimila dollari: mai decisione sarà più distruttiva per lui.
Ed non ha questa cifra e decide così di ricattare in forma anonima Big Dave, che ha una tresca con Doris e di cui Ed ne è a conoscenza, minacciandolo di rivelare a tutti la loro relazione. Con questa rivelazione Big Dave perderebbe tutto (ricordiamo che siamo negli anni Cinquanta, il decennio del “si fa, ma non si dice”) e così cede al ricatto.
Da qui, si scateneranno una serie di eventi, scambi di colpe e fraintendimenti in cui i personaggi saranno travolti da omicidi e arresti destinati a cambiare la vita di tutti.
Il destino beffardo e la giustizia viaggiano su due binari diversi ma paralleli. Ci vorrà del tempo perché i colpevoli vengano puniti, magari non direttamente per l'atto che hanno compiuto, ma nessuno sarà risparmiato.
Nemmeno la giovane e pruriginosa Rachel (interpretata da un'acerba Scarlett Johansson) uscirà di scena incolume, rea di aver tentato un approccio sessuale con Ed, mentre questi era alla guida della sua auto, di ritorno da un'audizione per pianoforte a cui il barbiere l'aveva accompagnata. Così, anche l'unico barlume di vitalità nella vita di Ed, è destinato a evaporare.
L'uomo che non c'era è un noir intrigante: già dalle primissime scene si avverte un senso di incertezza che incombe sui personaggi, il tutto amplificato dalle potenti immagini.
Inizialmente pensato con le immagini a colori, il film è stato poi reso in bianco e nero: l'effetto è incisivo perché sottolinea ulteriormente le atmosfere cupe. Il contrasto di luce e ombra simboleggia la lotta tra il bene e il male.
Direttore della fotografia è il doppio premio Oscar Roger Deakins, che collabora spesso con i fratelli Coen e che ha curato la fotografia di pezzi da novanta, quali 1917 (di Sam Mendes, 2019), Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017), Revolutionary Road (di Sam Mendes, 2008), Jarhead (di Sam Mendes, 2005), solo per citarne una manciata.
Un plauso anche a Billy Bob Thornton, che riesce a esprimere con la sua espressività i tormenti interiori di un uomo chiuso e schivo, incapace di comunicare a parole.
Film riuscito e ben congegnato. I fratelli Coen non deludono nemmeno questa volta.



venerdì 8 maggio 2020

LE TRUPPE SBARCANO AL CINEMA - FILM DI GUERRA PREFERITI


Perché guardare film di guerra, vi chiederete, nel marasma di pellicole che trattano temi più moderni e accattivanti?
In realtà ci sono tanti motivi per farlo: innanzitutto, per conosce la storia e il passato. Certo, la ricostruzione nei film è spesso romanzata però, se siete curiosi come me, si possono sempre cercare informazioni e spunti in rete, nei libri, nei saggi e persino nei fumetti, per avere un quadro più ampio rispetto alla trama del film.
Inoltre, si può scoprire che dietro la storia ci sono uomini soli al potere, o grovigli burocratici che vanno contro ogni logica, oppure ancora singoli poveracci che vengono mandati incontro alla morte facendo leva su falsi ideali.
E poi, non da ultimo, spesso i film di guerra sono dei veri cult, girati da registi stratosferici e interpretati da attori pazzeschi.
Quindi mettetevi comodi per leggere la mia personale lista di film preferiti dedicati alla Seconda Guerra Mondiale.



DUNKIRK di Cristopher Nolan (2017)
Maggio 1940, le truppe inglesi e franco-belghe sono bloccate sulla spiaggia di Dunkerque (nord della Francia), in attesa che la flotta navale arrivi a riprendere i soldati e portarli al sicuro. L'esercito tedesco avanza inesorabilmente alle loro spalle via terra e sulle loro teste via cielo.
L'azione si sviluppa in tre filoni: sulla terraferma, in mezzo ai giovani soldati in attesa dell'evacuazione; nei cieli, tra i caccia britannici che cercano di proteggere i soldati dagli attacchi aerei dei tedeschi; via mare, sulle navi dei civili britannici che la marina esorta a partire verso la costa francese per supportare con i loro mezzi la missione.
Il nome del regista è garanzia di capolavoro: tre filoni che si dilatano e si contraggono lungo la dimensione temporale, in un clima di ansia e angoscia che ci accompagna dal primo istante.
Qui la mia recensione completa di Dunkirk.




TORA! TORA! TORA! di Richard Fleischer, Kinji Fukasaku e Toshio Masuda (1970)
Dicembre 1941, base navale di Pearl Harbor (isole Hawaii). E' nota a tutti la disfatta americana da parte della flotta giapponese, che bombardò la base navale nemica provocando, oltre alle numerose vittime, ingenti danni alle navi e agli aerei statunitensi.
Il film ricostruisce quello che sta dietro la vicenda, portando alla luce le lacune della burocrazia bellica e dei vertici di comando, e il susseguirsi di decisione sbagliate e ritardatarie dettate dall'idea della propria superiorità sul nemico nipponico.
Punto in più per questo classico della guerra è che le scene del filone nipponico sono state girate da una troupe giapponese, mentre una squadra americana si è occupata di quelle relative alle vicende statunitensi. Un film innovativo, se si pensa che fu girato in piena Guerra Fredda.







SI ALZA IL VENTO di Hayao Miyazaki (2013)
Ennesimo capolavoro del maestro dello Studio Ghibli, questo film d'animazione racconta la biografia romanzata di Jirō Horikoshi, ingegnere aeronautico giapponese che progettò gli aerei caccia che la Marina Imperiale giapponese userà nella Seconda Guerra Mondiale (che troviamo in Tora! Tora! Tora!). Le atmosfere incantate si ispirano a valori come libertà, amore e intelletto umano, eppure questo non ha evitato critiche a Miyazaki per i rimandi a fascismo e nazismo presenti nel cartone. Ad esempio, Jirō nei suoi sogni incontra Giovanni Battista Caproni, pioniere dell'aviazione italiana che sarà accusato di filo-fascismo e collaborazionismo coi tedeschi dopo l'armistizio. Inoltre, Jirō e i colleghi ingegneri si recano in Germania per studiare i loro modelli aerei e trarne ispirazione per crearne di propri. La realizzazione del cartone è stata molto lunga e sofferta per Miyazaki, soprattutto per la delicatezza del tema della guerra e cosa essa avesse significato per il Giappone (basti solo pensare alla bomba atomica). In sua difesa, il regista si è sempre detto ispirato dal suo grande amore per gli aeroplani militari e il suo Paese per realizzare questo cartone.




LA SOTTILE LINEA ROSSA di Terrence Malick (1998)
1942, Guadalcanal (Isole Salomone, Sud del Pacificico). Un gruppo di fucilieri americani viene spedito sull'isola per risalire una collina e conquistare una base aerea giapponese.
Film intimista e corale, ognuno dei numerosi personaggi si trova da solo di fronte alla paura e alla morte. I loro strazianti pensieri si alzano inascoltati nel silenzio della natura lussureggiante che li circonda. È incredibile come animali e vegetazione continuino la loro esistenza indisturbati e indifferenti rispetto alla morte e all'assurdità delle decisioni degli umani.











SALVATE IL SOLDATO RYAN di Steven Spielberg (1998)
Giugno 1944, Omaha Beach (Normandia). Un gruppo di soldati americani, dopo essere sopravvissuti al massacro dello sbarco del 6 giugno, viene incaricato di trovare e salvare il soldato Ryan, per riportarlo a casa sano e restituirlo a una madre che ha perso tutti gli altri figli in guerra. Effetti speciali spettacolari, Spielberg non delude nemmeno – come suo solito – per emozioni e patriottismo, raccontando la storia di molti uomini che mettono a repentaglio la loro vita per salvarne un'altra.
Certamente, la scena iniziale dello sbarco rimarrà nei manuali di storia del cinema per i grandiosi effetti speciali.









LETTERE DA IWO JIMA di Clint Eastwwod (2006)

Febbraio-marzo 1945, isola di Iwo Jima. L'isola è presidiata da un plotone di soldati giapponesi, in attesa dell'arrivo delle truppe nemiche, decise a conquistare il territorio sul fronte nipponico. L'attesa è dura e snervante; i soldati la passano scavando gallerie sotterranee e fortificando la vetta del monte Suribachi, mentre con la mente tornano alla vita civile a cui sono stati strappati. Con lo sbarco degli americani si inizierà una battaglia che durerà oltre un mese e segnerà la disfatta dei giapponesi. Si tratta di uno dei rari film girati da un regista americano che racconta interamente le vicende dal punto di vista del fronte avversario, mostrando che anche “il nemico” ha sentimenti, storie personali e paure.  








FLAGS OF OUR FATHERS di Clint Eastwood (2006)
Febbraio-marzo 1945, isola di Iwo Jima. Il film è speculare rispetto a Lettere da Iwo Jima perché racconta la stessa battaglia dal punto di vista dei marines statunitensi. Flags of Our Father, mostra però anche cosa accadde in America dopo che le truppe conquistarono il monte Suribachi: il governo mise in moto una massiccia campagna di propaganda a favore della sicura vittoria americana nella guerra, utilizzando la celebre fotografia scattata sulla vetta del monte mentre alcuni marines issano la bandiera a stelle e strisce. Ma cosa si cela veramente dietro quella foto? I marines che erano presenti dovranno scegliere se rilevare il segreto o mantenere le bugie che si nascono dietro la guerra e le perdite umane.









LAND OF MINE – SOTTO LA SABBIA di Martin Zandvliet (2015)
Maggio 1945, Danimarca. Un gruppo di giovanissimi soldati tedeschi, prigionieri di guerra, viene inviato sulle spiagge del Nord con l'infelice compito di rimuove dalla sabbia le mine che i tedeschi avevano sepolto, convinti che quello che fu lo sbarco di Normandia dovesse avvenire invece in Danimarca. La tensione, l'angoscia e la paura attanagliano i giovani prigionieri, così come lo spettatore, che partecipa alla missione rimanendo col fiato sospeso, lasciandosi anche intenerire dalla giovanissima età dei soldati, poco più che bambini. Il film tratta un interessante e a me sconosciuto fatto storico, ovvero l'impiego di soldati tedeschi a rimuovere oltre un milione e mezzo di mine lungo la costa danese.

mercoledì 1 aprile 2020

LA MIA VITA DA ZUCCHINA



di Claude Barras
2016

Preparate i fazzoletti perché questo film d'animazione vi farà sicuramente commuovere. Dura poco più di un'ora, ma il prezioso capolavoro di Claude Barras è un vero toccasana per l'anima.
Le atmosfere e le fattezze dei personaggi create da Barras, che utilizza la tecnica stop-motion, ricordano molto i lavori di Tim Burton, come The Nightmare Before Christmas (1993) e Frankenweenie (1984).
L'impatto visivo è notevole: anche se gli ambienti sono cupi e grigi, ci pensano i colori sgargianti con cui sono fatti i personaggi a rallegrare e dare speranza.
Protagonista di questa storia è un bambino di nome Icare, che si fa chiamare da tutti “Zucchina”, nomignolo che gli è affibbiato dalla madre. La donna passa le giornate a bere birra davanti alla tv, mentre Zucchina gioca nella sua tetra cameretta con gli unici oggetti che possiede: un aquilone, su cui ha disegnato la sagoma del padre (che se ne è andato, abbandonandolo), e le lattine di birra vuote che la madre getta a terra e che il piccolo utilizza per fare costruzioni.
Nonostante la pessima situazione in cui è costretto a vivere, Zucchina, come ogni altro bambino farebbe, vuole bene sia alla madre che al padre assente.
A seguito di un incidente, il piccolo rimane però solo al mondo e viene mandato in una casa-famiglia, con la promessa da parte del poliziotto che ha seguito il suo caso di andare a trovarlo regolarmente.
Nella struttura si vive modestamente, eppure Zucchina può contare sul buon cuore e la gentilezza della direttrice e della coppia di insegnanti che vivono lì.
Poco per volta, il piccolo Zucchina imparerà a conoscere gli altri bambini ospiti, non senza qualche difficoltà iniziale. Come chiunque abbia subìto un trauma o sia stato maltrattato, ciascun piccolo ospite guarda con curiosità e timore il nuovo arrivato e, dal canto suo, anche Zucchina all'inizio fatica a capire alcuni comportamenti dei suoi compagni.
Poco per volta, i bambini si aprono al nuovo arrivato, che inizialmente appare ai loro occhi un po' strano poiché stringe in mano il suo aquilone e una lattina di birra dicendo che sono tutto quello che possiede di suo padre e sua madre.
Alla malinconia di Zucchina si somma il racconto delle tristi vicende che hanno portato ogni piccolo ospite nella struttura: chi ha i genitori tossicodipendenti, chi in prigione e chi rimpatriati al Paese d'origine, chi, ancora, ha subìto abusi.
Il loro passato familiare condiziona il loro presente: Béatrice, che corre alla porta speranzosa che la madre sia venuta a prenderla ogni volta che sente un'auto arrivare, oppure Alice che ha gesti ossessivo-compulsivi e nasconde coi capelli una cicatrice in volto per le violenze subite dal padre, o ancora Simon che tende a essere prepotente.
Zucchina sembra finalmente trovare un po' di serenità: il buon poliziotto gli fa visita regolarmente, il gruppo dei compagni si fa affiatato e arriva una nuova bambina nella struttura, Camille (con un passato terribile alle spalle), che fa breccia nel cuore del piccolo protagonista.
Quando però Camille verrà portata via da una perfida zia, che la vuole con sé solo per percepire dei soldi, Zucchina e i piccoli amici escogiteranno un piano per salvarla e che porterà Zucchina e Camille stessi a un lieto fine inaspettato.
C'è un persistente alone di tristezza che caratterizza tutto il film e che fa provare dispiacere per tutti i piccoli abitanti della casa-famiglia, poiché non ci sono sconti per nessuno, non importa quanto piccoli siano. Mai il lieto fine è così atteso come per questa storia, che lascia comunque la speranza, racchiusa nell'intelligenza e nel candore dei bambini.
I momenti più commoventi sono alleggeriti da scene divertenti, soprattutto quando i piccoli ospiti discutono e danno opinioni su cosa succede agli adulti quando fanno sesso e sull'anatomia femminile e maschile. Nessuna favoletta della cicogna: questi bambini sono pratici e concreti e non usano giri di parole come magari farebbero altri cresciuti sotto una campana di vetro. In tal senso, un plauso al regista per aver affrontato in questa maniera il tema della sessualità.
La mia vita da zucchina è stata realizzato impiegando due anni di preparazione e lavoro, otto mesi di riprese fatte in sessanta set e con oltre cinquanta pupazzi fatti a mano con la plastilina.
Questo lavoro è valso due prestigiose nomination come miglior film d'animazione, una per gli Oscar e una per i Golden Globe.
Un film d'animazione che consiglio a tutti, soprattutto ai grandi.