di Gianfranco Rosi
Italia, 2016
Un anno intero passato a vivere
su un lembo di terra di 20 km² in
mezzo al mar Mediterraneo e con una telecamera in spalla, a filmare la vita
degli isolani e gli sbarchi degli immigrati. È così che nasce Fuocoammare, il documentario di
Gianfranco Rosi che racconta di Lampedusa.
Lampedusa, isola molto più vicina
alle coste africane che non a quelle italiane, è certamente nota a tutti per
gli sbarchi dei profughi che fuggono da molti Paesi dell’Africa e che
raggiungono proprio quest’isola ubicata nel Canale di Sicilia alla ricerca
della salvezza.
Rosi ha girato personalmente
tutte le scene, senza l’aiuto di nessuna troupe. Solo lui, la telecamera e
l’isola nella sua purezza. Ha scelto di raccontare la vita degli abitanti di Lampedusa
attraverso le vicende del piccolo Samuele, un bambino che proviene da una
famiglia di pescatori.
Samuele è molto diverso dai
bambini iper-tecnologici a cui siamo abituati oggi. Niente tv, cellulare o
videogiochi. Gli bastano pochi oggetti per costruire una fionda e divertirsi
con l’amico, in mezzo alla natura, a dare la caccia agli uccelli.
Samuele rappresenta la genuinità
di una popolazione che da vent’anni a questa parte si sta facendo carico di una
tragedia che pare essere senza fine e senza soluzione. Eppure, Samuele non
incontra mai nessun immigrato o, almeno, durante il periodo delle riprese. Il
mezzo con cui lui e la sua famiglia si tengono aggiornati è la radio locale,
che trasmette musica e notizie relative agli sbarchi.
È proprio alla radio che la nonna
di Samuele, instancabile massaia che prepara manicaretti, affida una dedica con
l’augurio che le condizioni meteo migliorino e i pescatori possano lavorare in
mare. Chiede di ascoltare una canzone siciliana che si intitola “Fuocoammare”.
Già in precedenza questa parola, “fuocoammare” ovvero il mare che va a fuoco,
era stata evocata proprio da lei, quando racconta al nipote che ai tempi della
Seconda Guerra Mondiale – quando Lampedusa era avamposto delle forze armate per
la sua posizione centrale nel mar Mediterraneo – i bombardamenti riflettevano
sul mare dei bagliori rossi come il sangue.
Nella vita della famiglia di
Samuele non ci sono tv e programmi-spazzatura che puntano a spettacolarizzare
la tragedia per far salire gli ascolti e che ci riempiono la testa di
informazioni faziose o distorte, piene di pregiudizi. C’è solo lo sguardo
innocente che vede senza filtri la situazione per quella che è (e che il
regista sceglie di farci vedere). Eppure, un piccolo “difetto” c’è: Samuele ha
un occhio “pigro”, che non vede bene come dovrebbe e saprebbe fare perché non
manda le immagini al cervello. L’oculista prescrive al bambino un paio di
occhiali e un occlusore, con il quale oscurare l’occhio sano per costringere
l’occhio pigro a lavorare e recuperare la vista.
Questo dell’occhio potrebbe
essere un fatto come un altro nella vita del ragazzino, ma potrebbe anche
significare qualcosa di più: essere metafora della nostra condizione, quella di
spettatori passivi dinnanzi alle tragedie dei profughi, che guardiamo ma non
vediamo veramente, perché anche noi abbiamo l’occhio pigro, assuefatto dai
pregiudizi alimentati dall’infotainment televisivo e dal razzismo.
Oltre alla famiglia di Samuele vi
è anche un’altra presenza sull’isola che viene ripresa, quella preziosissima
del Dottor Pietro Bartólo, il medico di Lampedusa. Oltre ad occuparsi degli abitanti
in qualità di medico, Bartólo lavora al centro di accoglienza per prestare le
prime visite e l’assistenza medica necessaria ai profughi che approdano sulla
terraferma dopo i giorni passati in mare sulle navi.
Le condizioni in cui queste persone
arrivano dal mare sono disperate ed è proprio Bartólo (unica voce esplicativa
in tutto il documentario) a spiegare come funziona la traversata: in base a
quanto pagano, dagli 800 ai 1.500 dollari, i migranti vengono stipati dai piani
più bassi (nella stiva) a quelli più alti della barca. Vengono poi abbandonati
in mare e recuperati dalle forze dell’ordine e dai volontari, che li
traghettano sino all’isola di Lampedusa, dove ricevono le prime cure mediche e
dove vengono anche ritrovati i cadaveri di coloro che non hanno superato il
viaggio.
Il regista riprende due
salvataggi e le scene sono oggettive, crude e reali, prive di commento: si
sentono solo le incitazioni e le domande dei volontari e militari e le voci
sommesse e disperate degli immigrati. Gli sbarchi si commentano da sé, senza il
bisogno di un conduttore tv che descriva la tragedia per suscitare compassione
ed inutili sentimentalismi.
La tragedia non è gridata, è
presentata così come la vedono quotidianamente coloro che ne fanno parte, che
la subiscono o che la arginano.
Sono poche le scene forti, ma
quelle poche bastano per imprimere nella memoria la portata dell’evento e la
sofferenza vissuta dai naufraghi e a ricordarci che questa tragedia si sta
ripetendo ormai da anni senza che venga trovata alcuna soluzione per aiutare i
profughi e supportare gli abitanti di Lampedusa a far fronte a quella che viene
banalmente definita “emergenza”, che dura però da oltre vent’anni e che, per
definizione, non può più essere tale.
Inutile dire che Fuocoammare è un film che tutti dovremmo
vedere e che, magari, ci dovremmo mettere tutti un occlusore come il piccolo
Samuele per sforzarci di capire davvero la portata di questi eventi e il dolore
di questa gente che viene dal mare.
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