di Philip K. Dick
1968
Da qualche tempo a questa
parte mi sono addentrata in punta di piedi nel mondo della
letteratura fantascientifica, grazie ad autori come Douglas Adams,
Kurt Vonnegut e Herbert George Wells.
E poi sul mio percorso ho
incontrato Philip K. Dick, che costituisce un punto di non ritorno e
che mi ha risucchiata nel tunnel della fantascienza: una volta che ci
entri è impossibile uscirne.
Questo perché la
fantascienza permette agli scrittori di rendere possibile
l'inverosimile e immaginare mondi in cui le persone, le cose e i
fatti non hanno limiti. Ed è così che, mentre te ne stai seduto sui
messi pubblici, in una fredda mattina, a leggerti Philip K. Dick, la
tua mente prende una direzione opposta a quella verso cui stai
andando: fisicamente sei diretto al lavoro, mentalmente sei in
viaggio per Marte o chissà quale altro Mondo.
Philip K. Dick esercita
un forte fascino sugli amanti del genere, nonostante i suoi mondi
siano contornati da un'aurea nichilista e tetra e l'essere umano sia
destinato alla distruzione di se stesso. La profondità dei temi che
l'autore affronta getta le basi per una riflessione che va oltre la
letteratura e sconfina nella filosofia. La sua intera opera è
infatti intrisa di misticismo, esistenzialismo e pessimismo. Emerge
in lui l'esigenza di comprendere e descrivere la storia dell'umanità,
caratterizzata dalla lotta per il potere, dalle guerre e dal
controllo sociale tramite la religione e l'autoritarismo.
Se in Dick non traspare
nemmeno un barlume di positività è certamente dovuto alla vita
turbolenta che ha vissuto: dall'infanzia caratterizza dalla morte
prematura della gemella, dal divorzio dei genitori e dalla
depressione della madre, all'età adulta caratterizza da cinque
matrimoni e dall'uso medico di anfetamina – per curare la
depressione dovuta alla schizofrenia – di cui è diventato
dipendente. Pare che se ne servisse anche per scrivere a ritmi
disumani. Il risultato sono infatti oltre quaranta romanzi e cento
racconti, scritti fino al 1982, l'anno della sua morte e dell'uscita
del film Blade Runner di
Ridley Scott tratto dal suo romanzo Ma gli androidi sognano
pecore elettriche?
Purtroppo
per Dick, morirà prima di potersi godere la fama internazionale
raggiunta grazie al film, divenuto nel frattempo un cult della
fantascienza cinematografica. L'autore ebbe giusto il tempo di
visionare alcune delle scene del film in fase di montaggio,
apprezzandone il lavoro.
Il
romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? affronta
grandi temi quali le conseguenze che odio e guerra portano
all'umanità (condannandola a vivere in un tetro mondo in cui piove
polvere corroborante), le droghe e le allucinazioni, la religione
come forma di controllo e la mancanza di relativismo, l'autorità e
il controllo delle menti, l'apatia e la mancanza di emozioni (tanto
che i protagonisti si servono di una macchina umorale, la Panfield,
per generare e comandare i sentimenti) e, infine, il rapporto uomo /
androide.
Siamo
nel 1992, in una San Francisco desolata e quasi disabitata, come
ormai tutta la Terra, a causa di una guerra atomica che ha spinto gli
uomini a partire per le colonie extra-mondo. Solo pochi sono rimasti.
Tra di loro c'è il cacciatore di taglie Rick Deckard, che vive in
città insieme alla moglie Iran e alla loro pecora elettrica. Gli
animali veri sono diventati una rarità e i pochi esemplari rimasti
sono un bene di lusso che quasi nessuno può permettersi di
acquistare.
Il
lavoro di Deckard consiste nell'eliminare – in gergo “ritirare”
– gli androidi (ovvero, macchine con fattezze umane) che si
ribellano o che non hanno più alcuna utilità. Gli viene affidato il
compito di ritirare sei replicanti di ultima generazione, modello
Nexus 6, particolarmente pericolosi e fuggiti da una colonia
extra-mondo.
Deckard
accetta il difficile incarico, attirato dalla generosa ricompensa,
con la quale vuole acquistare una pecora vera. Non sa ancora che
questo incarico cambierà per sempre la sua concezione degli androidi
e del lavoro che svolge.
La
storia si sviluppa seguendo i canoni del romanzo poliziesco noir,
insinuando nel lettore molti dubbi sull'innocenza dei personaggi,
Deckard in primis. Durante la sua missione, l'uomo conoscerà alcuni
androidi che lo spingeranno a dubitare di se stesso e della sua vita:
l'affascinante Rachael, nella quale sono stati impiantati ricordi
umani per renderla inconsapevole di essere una macchina, e il
cacciatore di taglie Phil Resch, che gli mostrerà una visione
diversa del mondo androide.
Uno
dopo l'altro, Deckard riuscirà a ritirare tutti gli androidi,
arrivando alla scontro finale (che, personalmente, mi aspettavo più
epico, date le premesse) con quello più pericoloso.
Nonostante
l'impronta noir, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
resta a tutti gli effetti un
romanzo di fantascienza che indaga a fondo il tema uomo versus
macchina: così fragile e incapace di sfruttare le sue potenzialità
il primo, tanto forte ma – fortunatamente – limitata la seconda.
È
così che l'uomo riversa le sue conoscenze nella costruzione di una
macchina destinata a volerlo distruggere per superarlo e prenderne
il posto. Ciò che può salvare l'uomo non sono il potere o
l'esercito, ma qualcosa che gli androidi non possono avere: i
sentimenti e, nello specifico, l'empatia, ovvero la capacità di
capire lo stato d'animo altrui.
E,
tuttavia, pare che l'uomo, non l'abbia ancora capito e si ostini a
volgere verso l'autodistruzione, in una lotta al potere in cui il più
forte vince sul più debole. Proprio per questo, i romanzi di Philip
K. Dick, scritti nel passato e rappresentati il futuro, sono in
realtà molto attuali.
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