Quello
che leggerete di seguito è un 'esperimento' nel quale ho deciso
di fare incontrare, dopo trent'anni, due dei personaggi del libro che
sto per finire di leggere in questi giorni: “Suite francese” di
Irène Némirovsky.
Si
tratta di un romanzo corale incompiuto (a causa della morte
dell'autrice in un campo di concentramento), con un susseguirsi di
personaggi che si incontrano, scontrano o si incrociano per pochi
attimi nella primavera del 1941, durante l'occupazione nazista della
Francia. I
soldati tedeschi di istanza in Francia vengono 'ospitati' presso le
abitazioni dei paesini rurali conquistati, dove sono rimaste solo le
donne con i bambini, mentre gli uomini sono prigionieri o a
combattere.
Bruno
von Frank, ufficiale tedesco di ventiquattro anni, viene alloggiato
nella villa di campagna della famiglia Angellier, a Bussy, a est di
Parigi. Qui vi sono la matrona, Madame Angellier, e la nuora, la
dolce Lucile. L'uomo di casa, Gaston (figlio di Madame Angellier,
nonché marito di Lucile) è prigioniero in un campo in Polonia.
Mi
auguro che, dall'incontro immaginario tra Bruno e Lucile che
leggerete di seguito, capirete cosa fosse successo tra i due nel
1941...
P.s. Cliccando qui trovate la mia recensione del romanzo “Suite francese” di Irène Némirovsky.
Parigi,
1970
In
Rue La Fayette piccole barchette gialle e arancioni, cadute dai rami
rinsecchiti, si lasciavano cullare nelle pozzanghere lungo il viale
alberato. Il vento pungente costringeva i passanti a sollevare il
bavero dei cappotti, come fosse uno scudo per combattere il freddo al
quale andavano incontro a capo chino.
Quella
mattina la pioggia aveva risvegliato la città sotto un cielo plumbeo
e incerto. Nonostante ciò, Lucile aveva deciso di prendere posto al
solito tavolino all'aperto, il terzo a destra fuori dalla porta,
sotto la fioriera di ciclamini appesa alla finestra.
Si
domandava se avesse fatto la cosa giusta accettando il suo
appuntamento. Chiuse gli occhi e la sua mente si riempì dei ricordi
che la legavano a lui:
la guerra, l'occupazione nazista, il piccolo paesino di Bussy,
l'enorme villa Angellier che era costretta a condividere con la
suocera e le lunghe giornate vissute nella solitudine in attesa della
liberazione di Gaston. E poi, quella terribile scoperta.
Lucile
spalancò gli occhi per scacciare le immagini di quel passato che
ormai non le apparteneva più. In quel momento desiderò stringere
tra le dita una sigaretta, anche se erano passati dieci anni
dall'ultima volta che aveva fumato.
Nel
frattempo, aveva ordinato un latte macchiato e, in attesa che lui
facesse capolino
tra la folla di passanti, stringeva tra le mani la tazza colma e
bollente. Lo avrebbe di certo individuato a colpo sicuro, così alto
e impettito nel suo incedere impeccabile.
Un
raggio di sole, sbucato da una soffice nuvola scremata di grigio, le
illuminò gli zigomi delicati. Le sue labbra si distesero al contatto
con quel tocco di calore che intiepidiva la pelle sottile e
increspata.
I
grandi occhi scuri di Lucile schizzavano da un volto all'altro così
veloci da sembrare dita impazzite che eseguono al pianoforte una
melodia di Franz Liszt. Per suonare Liszt alla perfezione ci aveva
impiegato quasi vent'anni, ma cogliere lui
tra la folla fu
un attimo.
Eccolo.
Avanzava impettito e le lunghe gambe conquistavano metro dopo metro
la strada verso di lei. Arrivato dinnanzi al tavolino dove Lucile era
seduta, l'uomo si mise sull'attenti, mentre lei, alzandosi di scatto,
per poco non rovesciò la tazza fumante.
–
Lucile, sei proprio tu! - le disse prendendole le mani e
chinandosi in un perfetto baciamano. Lucile avvertì subito il suo
timbro di voce più morbido, meno spigoloso di quello di allora.
–
Bruno, quanto tempo, sussurrò lei.
–
Sei sempre così bella, Lucile, proprio come allora.
–
Anche tu sei tale e quale, Bruno.
Entrambi
sapevano di essere invecchiati in quei trent'anni: i lunghi capelli
di lei, una volta color del miele, erano ormai scuriti dalle tinture
e dal tempo, mentre la chioma sottile e bionda di lui era oggi
ingrigita. Eppure, nel momento in cui si trovarono seduti l'una di
fronte all'altro, fu come ritornare a quell'autunno del 1941. Lui non
le aveva ancora lasciato le mani, così sottili e affusolate, quando
il cameriere li riportò al presente per chiedere a Bruno cosa
volesse ordinare.
Bruno
liberò la presa e Lucile nascose le mani sotto al tavolo. Sembrava
una bambina che riceve una bacchettata dalla maestra e prova vergogna
di fronte all'intera classe.
–
Scusa, non volevo - le disse.
–
Non è niente – arrossì lei mostrandogli le mani –
ma cerco di averne cura, sai, per il mio lavoro.
Si
accorse subito che quanto aveva appena detto era una giustificazione
banale che mal celava il suo imbarazzo, ma Bruno fu pronto a
riportare la conversazione sulla giusta via.
–
Già, Esteban dice che sei una pianista eccezionale. E
pensare che quando ci siamo conosciuti non osavi avvicinarti al
pianoforte.
–
Eravamo in guerra – sospirò Lucile – ed era fuori
discussione suonare qualsiasi musica per rispetto delle circostanze.
E poi, mia suocera mi avrebbe dato il tormento. – Già, la vecchia
Madame Angellier non ti ha certo reso la vita facile. Chissà di
cos'altro ti avrebbe accusata se ti avesse visto suonare il piano,
magari in un duetto insieme a me, erklärter
Feind [nemico
dichiarato].
Pronunciando
quelle parole, la voce di Bruno era tornata per un attimo vigorosa e
dura come quella di un tempo.
–
Povera Madame, non posso certo biasimarla. La casa
occupata da un ufficiale tedesco e il figlio prigioniero in Polonia.
I suoi silenzi, la sua paura e il distacco con cui si approcciava a
te erano comprensibili.
–
Questo te lo concedo, Lucile, ma è stata ingiusta con
te. Sin dal primo istante in cui sono entrato nella vostra casa ho
notato la sua freddezza nei tuoi confronti. Dopotutto, eravate nella
medesima situazione. In te avrebbe trovato un'alleata, un sostegno, e
invece ti trattava come una presenza sgradevole.
–
Era la madre di mio marito, che altro potevo fare,
allora? Mi accusava di non amare abbastanza Gaston e di non essere
affranta quanto lei per la situazione. Come se non lo sapesse che mi
aveva sposata solo per le ricchezze di mio padre.
–
Nella lettera mi hai raccontato che Gaston si è
salvato…
–
Sì, è sopravvissuto al tifo e ha fatto ritorno a Bussy
alla fine della guerra. Lui è tornato, io me ne sono andata.
Gli
occhi di Lucile brillavano di orgoglio mentre ripercorreva i momenti
in cui aveva detto a suo marito che lo stava lasciando,
sbattendogli in faccia l'atto di acquisto dell'appartamento in città
che lui aveva comprato all'amante, per giunta con i soldi che suo
padre le aveva lasciato in eredità. Che stupido, Gaston, così
spavaldo da pensare che lei non avrebbe mai trovato quel foglio,
nascosto malamente tra le scartoffie del suo studio.
–
Avresti dovuto vedere la faccia di mia suocera il giorno
in cui ho fatto le valige e me ne sono andata per venire qui a
Parigi.
–
L'ho sempre saputo che dietro la tua dolcezza si
nasconde un guerriero. Quando mi hai scritto che hai affrontato
l'amante intimandole di lasciare l'appartamento, sono rimasto
incredulo.
–
Vivo ancora in quell'appartamento. Ormai è la mia casa.
All'inizio è stato molto difficile, avevo una rendita ma allora la
città era da ricostruire. Poi, poco a poco, la vita di noi francesi
è tornata alla normalità, o quasi. La distruzione, la morte dei
soldati, lo sterminio dei campi, è stato tutto così disumano.
A
queste parole Bruno serrò la mascella, contraendo i muscoli del
collo e scaricando la tensione sulle larghe spalle. Se Lucile se ne
accorse, non lo diede a vedere. Ma qualcosa, nel suo tono, si era
incrinato.
–
Raccontami di te, ora. Mi hai scritto che adesso vivi in
Argentina. Sono curiosa di sapere come ci sei finito, a Buenos Aires.
Nella tua lettera sei stato piuttosto vago.
–
Dopo essere partito da Bussy, io e i miei uomini siamo
stati spostati in molti altri villaggi della Francia. Vivevamo alla
giornata, sempre in attesa di nuovi ordini. Alla fine della guerra
sono stato rimpatriato e come è andata a finire è ormai sui libri
di storia. Lucile, sappi che non smettevo di pensare a te. Avrei
voluto tornare da te, non appena le acque si fossero calmate, ma non
potevo certo dimenticare di avere una moglie, in Germania. Era
malata, per giunta. Morì pochi anni dopo. Ero ormai consumato dal
dolore, mi sentivo svuotato per tutte le brutture che avevo visto in
guerra, i morti, il distacco da te e la malattia che consumò mia
moglie.
–
Speravo, un giorno o l'altro, di poterti rivedere,
Bruno. Ma di anni ne sono passati quasi trenta. Perché non sei
tornato in Francia, da me, quando tua moglie morì?
–
E' stato molto difficile, per me, superare i traumi
della guerra. Ancora oggi mi sveglio, nel cuore della notte, cercando
riparo dalle granate sotto le coperte. Dopo la morte di mia moglie,
mio cugino mi propose di imbarcarmi con lui per l'Argentina e, senza
pensarci troppo, lo feci.
–
Già, chissà di quanti orrori sei stato testimone.
Quanti morti
– rimarcò quasi con stizza – avrai visto con i tuoi occhi. E
così, in Argentina, ti sei fatto una nuova vita.
–
Esatto. Ho iniziato a lavorare in una fazenda
e oggi sono il proprietario di una multinazionale del grano.
–
Ed è arrivato Esteban..
–
Sì, nel 1950 mi sono sposato con la figlia del
proprietario di quella fazenda
e nello stesso anno è nato Esteban. Viviamo in una grande casa di
campagna. Sai? Dovresti venire a trovarci, potresti prenderti una
vacanza.
–
Parigi e il conservatorio sono la mia vita. Non potrei
stare un solo giorno senza il mio pianoforte e i miei allievi.
–
Esteban mi ha raccontato che segue le tue lezioni con
entusiasmo.
–
Sì, se la cava piuttosto bene. Il primo giorno del
corso stavo quasi per svenire quando sul registro ho letto il suo
nome, Esteban von Frank. Pensai che fosse uno scherzo. Riconobbi
subito il tuo cognome e in lui vidi i tuoi occhi e la tua fierezza,
ma non sapevo spiegarmi come potessero appartenere a uno studente di
Buenos Aires che aveva vinto una borsa di studio per Parigi.
–
Avresti dovuto vedere la mia faccia quando Esteban mi
raccontò della sua insegnante preferita, Madame Lucile Delacroix.
Anche se avevi ripreso il cognome da nubile, dalla delicatezza e
dalla grazia con cui ti descrisse, capii subito che si trattava della
mia Lucile.
–
Sei mai tornato in Germania, Bruno? – domandò lei con
tono deciso.
–
No, ho interrotto ogni contatto con i pochi parenti che
mi sono rimasti ad Hannover.
Bruno
aveva nuovamente perso il morbido accento acquisito in trent'anni
passati a parlare lo spagnolo.
Lucile
stringeva sempre più forte la tazza ormai vuota. Sul fondo erano
rimasti i granelli di zucchero che non si erano sciolti e il bordo
bianco indossava una collana di impronte di tenue rossetto rosa.
–
A Norimberga, invece, ci sei mai stato?
–
Che cosa stai insinuando Lucile? Ma che ti prende?
Pensavo che ti avrebbe fatto piacere incontrarmi.
–
L'ultima notte che hai passato a Bussy hai parlato con
un tuo sottoposto al telefono e io ho ascoltato l'intera
conversazione. Tu sapevi tutto, fin dal '41! Sapevi dei primi campi
di concentramento, sapevi che con i tuoi ordini mandavi a morire
centinaia di innocenti in Polonia e in Germania. Non voglio nemmeno
pensare a quanta gente tu abbia tolto la vita. E dicevate di essere
in Francia solo per tenere sotto controllo la parte occupata della
nostra nazione. Balle! Hai fatto molto più di quello che mi hai
lasciato credere!
–
Lucile, lascia che ti spieghi. Io eseguivo solo gli
ordini che ricevevo dall'alto. Non ho mai...
La
mano di Lucile, gelida e leggermente tremante, calò sulla bocca di
Bruno.
–
Taci! Non voglio sentire una sola parola. Tua moglie ed
Esteban sanno del tuo passato e della fuga in Argentina?
–
Papà! Madame Delacroix!
Una
voce gioiosa che proveniva dalla strada si intromise nella
conversazione, giusto in tempo per evitare a Lucile di andarsene.
Esteban li raggiunse in un attimo.
–
Esteban! Sono felice che tu sia qui – mormorò Bruno
in una contrazione che voleva essere un sorriso.
Il
ragazzo prese posto al tavolino.
–
Immagino che tu e Madame Delacroix vi siate già
raccontati molte cose. E il merito di questo incontro è mio.
Esteban
gongolava in un sorriso sornione, compiaciuto per aver fatto da
messaggero tra il padre e la donna presso cui era stato ospite
durante la guerra. Era tanta in lui la gioia che non si accorse di
quanto Bruno e Lucile fossero irrigiditi sulle sedie.
In
un gioco di sguardi, in cui ciascuno cercava gli occhi dell'altro
senza incrociarli, fu il cameriere a irrompere sulla scena per
prendere l'ordinazione di Esteban.
Lucile,
spinta dalla rabbia, colse l'occasione: mentre Esteban e Bruno
rivolgevano la loro attenzione al cameriere, lei si alzò e, quasi
facendosi scudo con l'uomo in piedi al tavolino, si congedò: – È
stato un piacere rivederti, Bruno.
Se
ne andò senza aspettare una risposta. Non poté nemmeno vedere i
volti stupiti di padre e figlio che la osservarono mentre veniva
inghiottita dalla folla di passanti di Rue La Fayette.
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