sabato 30 maggio 2015

OLIVE KITTERIDGE




di Elizabeth Strout
2008

Olive Kitteridge, donna grassa, cinica e burbera – ma non per questo immune dalle sofferenze e dal dolore – è la protagonista di questo singolare romanzo costituito da una serie di racconti che molti critici dell’editoria definiscono con il neologismo “romanzo di racconti”. Si tratta di racconti in cui le vicende sono dislocate in tempi diversi e vissute da vari personaggi, ma che nel loro insieme rappresentano un quadro completo, legato da un filo conduttore.
Nella raccolta di racconti di Elizabeth Strout il fil rouge è, per l’appunto, Olive Kitteridge. La donna, infatti, è una presenza costante in ogni capitolo: spesso come protagonista principale degli eventi, altre volte come comparsa sullo sfondo, altre ancora semplicemente nominata o rievocata da altri personaggi.
I personaggi sono presentati in ogni capitolo in media res, situati in una vicenda già in corso. L’autrice, grazie alla sua abilità narrativa, permette al lettore di entrare fin da subito in sintonia con il personaggio e la sua storia, a volte gradualmente – attraverso lo svelamento di piccoli ma significativi dettagli – talvolta, invece, con colpi di scena e rivelazioni inaspettate. Non si avverte mai il senso di disagio, lo spaesamento rispetto a quanto sta succedendo ai personaggi, che si conoscono tutti tra loro.
Il lettore entra nella piccola comunità di Crosby, cittadina immaginaria del Maine, e viene accolto nei luoghi più frequentati, come la farmacia di Henry Kitteridge, la Warehouse Bar and Grill dove suona la sempre alticcia Angela O’Meara, oppure ancora il bar sulla baia. E’ anche una cittadina che non perdona, che condanna ed esclude chi trasgredisce le regole; tutti sanno gli affari altrui e il pettegolezzo è all’ordine del giorno; il disprezzo si traveste da pietà, compassione e falsi sorrisi.
Diversa da tutti è Olive Kitteridge, insegnante di matematica in pensione e moglie del farmacista. È una donna schietta e sincera, sprezzante e di pochi fronzoli. L’autrice costruisce magistralmente questo personaggio, rivelandone poco per volta la sua graduale evoluzione negli anni.
Olive si presenta come una donna cinica e questo induce il lettore a disprezzarla; ci si chiede come il marito faccia a sopportala e a restare insieme a lei. Si vorrebbe entrare nelle pagine del libro per scuoterlo e dirgli di andarsene; ma lui la ama in modo incondizionato ed è disposto a tutto per lei.
Il rancore che il lettore prova verso Olive non accenna a diminuire nemmeno quando entra in scena il figlio Christopher, un uomo represso e controllato dalla madre. Olive analizza in modo consapevole il suo rapporto col figlio, sa che il suo eccessivo amore la allontana da lui ma crede che sia lui a sbagliare. Olive non condivide le scelte di vita del figlio, che deciderà di trasferirsi altrove, lontano dalla casa che Olive e il marito hanno costruito per lui.
Ma, improvvisamente, qualcosa di inaspettato succede. Qualcosa che sarà per Olive un trauma, al quale seguirà una svolta e l’inizio di un lento e graduale cambiamento interiore. E così, Olive si scopre capace di provare nuovi sentimenti, che sino ad allora credeva tipici di persone vulnerabili e poco coraggiose. Olive scopre che questi sentimenti sono umani ed è legittimo avere paura o essere felice senza provare rimorso. E il lettore cambia insieme a Olive: il suo disprezzo per lei diventa prima compassione, poi comprensione e simpatia, fino a sostenere le sue scelte e arrabbiarsi insieme a lei per un figlio che non si mostra minimamente riconoscente verso una madre che sta cambiando e si offre a lui in tutta la sua vulnerabilità.
Il profondo cambiamento di Olive e l’evoluzione del suo personaggio sono accompagnati da tematiche quali il matrimonio – e, contestualmente, l’amore, la fedeltà e l’invecchiare insieme – la malattia, la morte e la vedovanza.
Non stupisce che, con questo complesso romanzo e un personaggio così ben costruito, Elizabeth Strout abbia vinto il Premio Pulitzer nel 2009.
 

domenica 10 maggio 2015

STORIA DI UN CORPO


di Daniel Pennac
2012


Sono davvero pochi gli autori di oggi che riescono a scrivere un romanzo davvero originale e fuori dagli schemi. Qualcosa di nuovo e mai letto. E Daniel Pennac, pluripremiato autore francese, possiede questa capacità. L’idea di base, nella sua semplicità, è geniale: raccontare una non-storia (perché non c’è una storia vera e propria) attraverso il diario che un uomo scrive riportando esclusivamente fatti ed eventi che riguardano il suo corpo, dalla giovinezza al momento in cui sta per morire.
Il protagonista non è dunque l’uomo che tiene il dettagliato resoconto nel diario, bensì è il corpo stesso a essere al centro del romanzo. Al lettore non è dato sapere il nome dell’uomo e nemmeno altre informazioni basilari che di solito emergono da subito in un romanzo, ad esempio la professione o la città in cui vive.
Eppure, una volta terminata la lettura, si ha nella propria mente l’immagine chiara ed esatta dell’uomo. Questo perché, nonostante il lettore sia all’oscuro di molte informazioni che lo riguardano, si conoscono di lui dettagli così intimi e personali – che spesso non si ha il coraggio di rivelare nemmeno al medico – che si impara a conoscerlo per via indiretta da quello succede al suo corpo.
Il “proprietario” del corpo è un uomo nato nel 1923 in Francia, che vive un’infanzia infelice a causa del carattere isterico della madre e della prematura perdita del padre, suo unico riferimento. Trascorre un’adolescenza spensierata in collegio e passa le estati in campagna, dove fortifica il corpo lavorando nei campi. Dopo le prime esperienze sessuali e gli studi universitari, arrivano un lavoro di responsabilità e prestigio, il matrimonio, i figli e, infine, i nipoti.
Dal 1936 al 2010 l’uomo annota scrupolosamente gli eventi più importanti che accadono al suo corpo: dalla tonificazione dei muscoli in età giovanile ai primi acciacchi della mezza età, sino alle malattie e ai disturbi dovuti alla senilità. Tutti gli eventi che indirettamente vengono narrati sono registrati come mere cause di determinate reazioni del corpo. Gli eventi, positivi e negativi, che segnano la nostra vita provocano reazioni non solo sulla nostra psiche, ma anche sul nostro corpo. Con il tempo l’uomo acquisisce piena consapevolezza del suo fisico e dei suoi organi, maturando una coscienza che gli permette di imparare a conoscere i propri limiti fisici, soprattutto raggiunta l’età adulta e l’inesorabile avvicinamento della vecchiaia.
L’uomo recepisce con entusiasmo i cambiamenti del corpo in età giovanile e l’esplosione della sua sessualità. Il corpo si sta forgiando e fortificando; anzi, è lui stesso che decide di migliorarlo con l’esercizio fisico per renderlo una vera e propria “macchina da guerra”. Il corpo però è in costante mutamento e, dopo l’apice della giovinezza e il mantenimento dell’età adulta, inizia il suo lento ma inesorabile declino. Nonostante la piena consapevolezza di tale declino, l’uomo conserva per tutta la vita ottimismo, umorismo e ironia, che non lo abbandonano nemmeno nei momenti più critici della malattia che lo colpirà in vecchiaia.
Leggendo questo libro, il pubblico maschile si rivedrà certamente nell’uomo del racconto, sospirando in gran segreto, sollevato per non essere l’unico a soffrire di alcuni disturbi fisici prettamente maschili. Il pubblico femminile, invece, si divertirà nell’apprendere che anche gli uomini, sebbene non siano colpiti da sindrome premestruale, a volte soffrono.


sabato 2 maggio 2015

LA FAMIGLIA BÉLIER



di Éric Lartigau
con Louane Emera, François Damiens, Karin Viard e Eric Elmosnino
Francia, 2014

Èric Lartigau porta in scena una commedia spensierata e commovente, ma non scontata, come solo i registi francesi sanno fare: trattare tematiche delicate – in questo caso l’essere sordomuti – unendo sapientemente le risate alla riflessione.
Il capofamiglia dei Bélier è Rodolphe, un contadino della campagna francese che alleva mucche e, insieme alla moglie Gigi, produce e vende formaggio. I due vivono in una grande fattoria e sono aiutati dai due figli: Quentin, ragazzino alle prese con la scoperta della sessualità, e Paula, sedicenne alle prese con i problemi tipici dell’adolescenza.
Le giornate trascorrono sempre immutate, con Paula che si sveglia all’alba per aiutare i genitori nella gestione della fattoria, per poi andare a scuola e, in seguito, fare ritorno a casa per svolgere i compiti o aiutare i genitori al mercato. Sembra il ritratto di una famiglia perfetta, che lavora duramente ma è grata di quanto possiede: la madre, donna scoppiettante e spiritosa, ben si equilibra con il marito, uomo dal carattere burbero; sono una coppia affiatata e hanno due figli servizievoli, due “bravi ragazzi”. Eppure, questa non è una famiglia come le altre: tutti i membri, eccetto Paula, sono sordomuti. Paula, ragazza volenterosa e piena di grinta, si divide tra la scuola e la fattoria. Si occupa di gestire le richieste di fornitori e clienti, accompagna i genitori al mercato per vendere i loro prodotti, li accompagna anche dal ginecologo – dove scopre i loro segreti sessuali più intimi – perché deve far loro da tramite al mondo. Paula è il cordone ombelicale che lega la sua famiglia al mondo. Senza di lei i genitori sarebbero perduti: come affrontare le telefonate? come vendere il formaggio? come chiamare il veterinario in piena notte?
Si crea una simbiosi estrema tra Paula e i genitori, un legame fortissimo e più che legittimo tra genitore e figlio. Nel film, tuttavia, tale legame è ribaltato, ovvero il punto di vista è invertito: è Paula che conduce i genitori, quando invece solitamente sono loro a condurre i figli; è Paula che si occupa di loro e si assicura sempre che stiano bene; è lei che li rimprovera quando non sono abbastanza seri. Si crea inoltre un gioco di intrecci di inversione tra concetti quali l’“altro”, il “diverso” e il “normale”: sono Gigi e Rodolphe a vedere gli “altri”, gli udenti, come i “diversi”; Gigi stessa vede la figlia “diversa” da loro, senza capire che a volte è Paula a sentirsi “diversa” dai suoi coetanei, soprattutto quanto si confronta con amici e compagni di scuola.
Ed ecco che, quando Paula ha l’opportunità di staccare il cordone ombelicale, l’equilibrio della famiglia si spezza. Il professore di canto della ragazze, che scopre in lei una voce fenomenale (non è questo uno scherzo del destino, con due genitori che non possono né cantare né ascoltare musica?) le propone di partecipare alle audizioni di una prestigiosa scuola parigina. Quando i genitori lo scoprono, ecco il dramma: come faranno a sopravvivere senza il loro mentore, colei che si occupa dei loro affari alla fattoria e di qualsiasi contatto loro abbiano col mondo esterno? I genitori si sentono traditi, soprattutto Gigi che, sconvolta, rivela alla figlia di aver desiderato che anche lei fosse sorda per non essere “diversa” da loro. Paula dimostra di essere fedele alla sua famiglia ed è disposta a tutto per loro, anche di rinunciare all’audizione. Ma grazie al padre, che rivela un animo tenero, la ragazza riuscirà a realizzare il suo sogno con il pieno appoggio della famiglia.
In Francia il film ha riscosso molto successo, sia di pubblico che di critica. Tuttavia sono insorte numerose associazioni di sordomuti lamentando che il film è stato fatto per essere fruito dai soli udenti: mancanza di sottotitoli nelle parti parlate, gesti del linguaggio per sordomuti approssimativi e la scelta di attori udenti nel ruolo di sordomuti (l’unico vero sordomuto del cast è Quentin, il fratello).
Di sicuro alcuni aspetti della vicenda narrata sono romanzati e fin troppo idillici (quale ragazzino si sveglia ogni giorno all’alba, felice di pulire la stalla prima di andare a scuola?), ma resta comunque un film in grado di strappare una risata – e una lacrima – affrontando un tema delicato e portandolo alla luce in maniera sensibile ma concreta. Grande merito anche a François Damiens e Karin Viard, che interpretano rispettivamente il padre e la madre, che grazie alla loro espressività sono stati in grado di costruire due personaggi complessi e divertenti. Ed esci dalla sala col dubbio se siano o no veri sordomuti.