venerdì 2 novembre 2018

IL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE




di Jean-Pierre Jeuneut
2001

Il favoloso mondo di Amélie, insieme a Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry, è uno dei miei film preferiti che tratta il tema dell'amore. Sia chiaro, però, non l'amore come storia fiabesca con lieto fine.
In questi film – così come nella mia testa – l'amore autentico è quello in cui si è consapevoli dei limiti e dei difetti reciproci, e si cerca di migliorarsi per vivere bene con se stessi e il proprio compagno. L'amore è anche essere grati al proprio partner, perché accetta le nostre paure, le nostre stranezze che, viste da altri, possono essere incomprensibili.
L'amore è un codice segreto che corre tra sguardi complici che si trovano d'accordo sui dettagli della vita quotidiana. Amore è anche rispettare le diversità e le passioni dell'altro, lasciarsi spazio per poi ritrovarsi e raccontarsi, entusiasti, quello che si è fatto.
È questo l'amore che troverà Amélie, la protagonista del film di Jeuneut. Ovviamente, l'amore non si fa trovare in modo immediato, ma ci guida con indizi che semina nel tempo lungo la nostra vita e che, apparentemente, non sono collegati tra loro. Ad esempio, il fattore di svolta nella vita di Amélie, è la morte di Lady Diana alla fine dell'agosto del 1997.
Le giovane passa la maggior parte del tempo sul posto di lavoro, al “Café de deux moulins” nel quartiere parigino di Montmartre. Il bar (che esiste realmente nei pressi del Moulin Rouge ed era prossimo al fallimento, prima del rilancio grazie alla fama ottenuta con il film) è un crocevia di personaggi strampalati e grotteschi, che rappresentano la moltitudine del genere umano.
Al di fuori del lavoro, la vita di Amélie è blandamente scandita dalle visite domenicali all'anziano e silenzioso padre e dalle giornate passate in casa in solitaria.
Un giorno di fine estate, Amélie trova casualmente nel suo appartamento – dopo aver sentito la notizia della morte della principessa del Galles – una vecchia scatola contenente i ricordi d'infanzia di qualcuno. La ragazza decide di trovare lo sconosciuto, ingegnandosi per risalire ai precedenti abitanti della casa e a capire chi sia il proprietario della scatola.
Dopo aver riconsegnato l'oggetto al legittimo destinatario, Amélie si accorge che questa esperienza le ha permesso di uscire dal suo guscio di solitudine e di conoscere gente nuova. Capisce inoltre che si può rendere felice chiunque con piccoli doni o gesti. Cogliendo la gioia nelle piccole cose, la ragazza da insicura sognatrice diventa determinata e socievole.
E, dopo aver aiutato molti conoscenti, tocca ad Amélie ricevere la sua dose di felicità. Il destino la conduce, attraverso il ritrovamento di un enigmatico album che contiene pezzi di foto di sconosciuti, a un ragazzo che lavora in un sexy shop. La ragazza, libera da ogni pregiudizio, scoprirà che la realtà non è come appare e che la felicità si fa trovare solo se si è disposti a mettersi in gioco.
L'atmosfera che circonda le scene della storia è sognante e ricca di rimandi caldi e avvolgenti, come le sonnacchiose serate di fine estate che fanno desiderare l'arrivo dell'autunno. Le musiche leggiadre del compositore Yann Tiersen sono la cornice sonora ideale che completa l'aura onirica del film.
Il favoloso mondo di Amélie è un inno alla gioia di vivere, allo stupore che si prova dinnanzi ai dettagli, alla serenità come mantra di vita, in risposta alle persona negative che, troppo spesso, ci circondano. Sorridere, sorridere e, ancora sorridere.
Vi auguro di trovare sempre meno persone tristi e sempre più persone che vi facciano stare bene. E, chissà, magari tra queste ci sarà anche l'amore vero, che sbuca all'improvviso dietro l'angolo.

Dedicato a M.,
che mi fa sorridere e ridere ogni giorno.

lunedì 2 luglio 2018

LADY BIRD



di Greta Gerwig
2017

Vedere questo film mi ha fatto ripensare alla mia adolescenza...e mi ha fatto tirare un respiro di sollievo per averla superata ed esserne ormai “fuori”. Certo, adesso sono nell'infausta fase quando-ti-sposi?/ quando-farai-un- figlio?/tic-tac-il-tempo-passa-e-non-sei-più-giovane, ma questa è un'altra storia.
Lady Bird – pluricandidato agli Oscar per migliore attrice protagonista (Saroise Ronan), miglior film, migliore attrice non protagonista (Laurie Metcalf), miglior sceneggiatura e miglior regista – mostra in maniera disillusa e sincera la delicata fase di passaggio dall'ultimo anno di liceo all'università della protagonista, Christine MacPherson, per tutti “Lady Bird”.
In America, è noto, l'ultimo anno di scuola costituisce un momento di forte stress, soprattutto per gli studenti che ambiscono a entrare nelle più prestigiose università: si deve avere un'ottima media, si devono avere molti crediti extra e si devono compilare i moduli di ammissione (sperando anche in una borsa di studio o un prestito), restando poi in ansia per mesi, prima di ricevere le tanto agognate lettere con il responso.
Se, oltre a ciò, si aggiungono anche le prime deludenti esperienze amorose, il timore di “fare da tappezzeria” al ballo di fine anno, gli scontri con i professori e una famiglia ben lontana da quella del perfetto prototipo americano, ecco che Lady Bird sembra la tipica adolescente americana ribelle e desiderosa di libertà.
La ragazza non è nemmeno perfetta: ha una media scolastica nella norma, ha pochissimi amici (anzi, una sola confidente), scruta con curiosità i compagni popolari e cerca di affermare la sua personalità stravagante imponendo a tutti il suo soprannome “Lady Bird”, che deriva dalla sua passione per i costumi con la testa a forma di pennuto.
Anche la sua famiglia non è eccelsa: la madre Marion ha un rapporto conflittuale con la figlia e non fa altro che riversare i problemi economici su Lady Bird, cercando di disilluderla sulla sua ambizione di studiare a New York; il padre Larry, disoccupato e depresso, si vede soffiare un'offerta lavorativa dal figlio Miguel, un ragazzo adottato dai MacPherson e con il quale Lady Bird litiga spesso.
Eppure, Lady Bird non è anonima e omologata come i suoi coetanei: nella sua originalità è ambiziosa, decisa, cinica quanto basta, ironica e mossa dalla voglia di evadere da Sacramento (California) per andare a New York e lasciarsi alle spalle la scuola cattolica che le è stata imposta dai genitori.
Greta Gerwig ci propone un'antieroina che è lungi dall'essere legata agli stereotipi hollywoodiani. Il film rispecchia perfettamente la sua protagonista: senza fronzoli, consapevole e privo di sentimentalismi melensi.
Si cresce e si matura, ma nuove sfide ti faranno sentire impreparato. I conflitti con i familiari possono affievolirsi, ma non potrai cambiare il carattere delle persone. Ci si può migliorare, ma la perfezione non esiste. Si possono raggiungere i propri obiettivi, ma con fatica e impegno. Coltivare i propri sogni è lecito, ma bisogna scontrarsi con i problemi della quotidianità.
Tutto questo vale per Lady Bird e gli adolescenti in generale, ma anche per i genitori e gli adulti.
Lady Bird ricorda allo spettatore che siamo stati tutti adolescenti con la voglia di fare e disfare, scappare lontano da casa, verso la libertà e che ognuno, in fondo, ha sempre pensato di non voler diventare, da grande, uguale ai propri genitori.
Un film che, nella sua semplicità, induce a una profonda riflessione sull'influenza che ha su ognuno di noi il carattere dei genitori.

giovedì 5 aprile 2018

RABBIA A NEW ORLEANS


di James Lee Burke
1994

Se amate quella che io definisco “americanitudine” – ovvero, qualsiasi cosa in stile americano che vi faccia sognare un viaggio negli States – Rabbia a New Orleans è il romanzo che fa per voi.
Uno dei miei desideri è quello di fare un viaggio in quella che nella mia testa è l'America più tradizionale e dai paesaggi mozzafiato che si vede nei film e si legge nei libri. Se proprio devo sognare in grande, vorrei partire dal Tennessee e attraversare gli Stati dell'Alabama, del Mississippi e della Louisiana, fino al Texas.
Nel frattempo, mi accontento di immaginare New Orleans e Baton Rouge leggendo le pagine di James Lee Burke. Lo scrittore texano è un maestro dei generi thriller e poliziesco e la sua notorietà letteraria ebbe inizio negli anni Ottanta grazie al personaggio dell'ispettore Dave Robicheaux, attorno al quale ha scritto ben ventuno romanzi (e qui esulto perché questo significa avere a disposizione molti libri della serie da leggere!).
Il successo di Robicheaux è talmente eclatante che sul sito ufficiale di Lee Burke è presente una sezione di merchandising di magliette, cappellini e oggettistica varia dedicata a questo personaggio. E pensare che, agli inizi della sua carriera, molte case editrici avevano rifiutato le opere di Lee Burke.
In Rabbia a New Orleans (il settimo della saga Robicheaux) troviamo il protagonista che vive serenamente a Baton Rouge con la moglie Bootsie e la figlia Alafair e gestisce un negozio di attrezzature da pesca per turisti, insieme a Batist. Robicheaux – si deduce dai suoi ricordi – ha ormai superato il suo problema con l'alcol.
Circondato dall'affetto dei cari e dai magnifici paesaggi del bayou (ovvero l'insieme di paludi, canali e foreste di palme e cipressi che si snodano lungo il fiume Mississippi), pare che Robicheaux abbia una vita finalmente libera dalle ombre del suo passato di poliziotto. Pare, perché le torbide acque del Mississippi, fiume così caro a Dave Robicheaux, nascondono un mistero che risale alla Seconda Guerra Mondiale. Depositato sul fondo del fiume c'è infatti un sommergibile nazista, giunto fin lì dalla Germania di Hitler. Si scopre così che all'epoca i tedeschi riuscivano ad arrivare oltre oceano e, posizionandosi nel Golfo del Messico, bombardavano le navi e le petroliere americane provenienti dalla foce del Mississippi.
Uno dei pochi ad aver avvistato il sommergibile durante un'immersione fatta in gioventù è proprio Robicheax. Il reperto storico si sposta in continuazione spinto dalle maree del golfo e la difficoltà di rintracciarlo ne alimenta la leggenda.
L'ex poliziotto viene ingaggiato da un pezzo grosso di New Orleans per mettersi sulle tracce del sommergibile e Robicheaux accetta l'incarico. Tuttavia, se ne pentirà presto: senza esserne consapevole, calpesterà i piedi alle persone sbagliate. In un intrigo di personaggi poco raccomandabili, mafiosi, drogati, neonazisti e poliziotti corrotti che pullulano nei sobborghi della capitale del jazz, Dave Robicheax rischia di mettere a repentaglio non solo la sua vita, ma anche la salute mentale della moglie. Lo psicopatico nazista Buchalter gli dichiara guerra e farà di tutto per rendergli l'esistenza un incubo, importunando anche Bootsie. A tutto ciò si aggiungono anche misteriosi omicidi dei quali viene sospettato il fidato Batist.
Insomma, per Dave Robicheax è tempo di rimettersi in gioco e tornare a indagare: non solo dovrà scagionare l'amico e catturare il folle Buchalter, ma dovrà anche lottare con antichi tormenti per non sprofondare nelle vecchie abitudini.
James Lee Burke trascina il lettore in una storia coinvolgente, in cui ci si affeziona al protagonista e con il quale si condividono gli ambienti, gli odori, i colori e i suoni, grazie alla dovizia di particolari con cui i luoghi sono descritti. Insomma, si ha l'impressione di trovarsi sulla riva del Mississippi o per le strade chiassose di New Orleans.
E nel frattempo, sognando il mio viaggio in quei posti, continuerò sicuramente a leggere gli altri romanzi della saga di Robicheaux.



lunedì 12 marzo 2018

LA FORMA DELL'ACQUA




di Guillermo Del Toro
2017

In un mondo di apparenza e superficialità, il film di Guillermo Del Toro ci ricorda che, per fortuna, il vero amore – quello fatto di empatia, sacrificio e sincerità – esiste ancora.
La forma dell'acqua si va ad aggiungere alla mia lista di film preferiti sull'amore, accanto alle storie di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004, di Michel Gondry) e I segreti di Brokeback Mountain (2006, Ang Lee).
Non mi era mai capitato di “tifare” per la vittoria di una pellicola agli Academy Awards, ma questa volta sono stata felice di sapere che il film ha vinto quattro dei tredici Oscar per cui era nominato: miglior film, miglior regista, migliore colonna sonora originale e miglior sceneggiatura.
Sin dalla prima scena – che in pochi secondi ci guida dalle profondità marine fino a un appartamento in città – lo spettatore è catturato dalla magia onirica della storia (e capisce subito che non sarà un film convenzionale!).
In un'atmosfera ovattata che evoca Il favoloso mondo di Amélie (2001, Jean-Pierre Jeunet), conosciamo Elisa Esposito, una donna muta (e qui mi permetto di fare un plauso al regista che ha scelto un'attrice, Sally Hawkins, di straordinaria bravura che non rientra nei canoni della giovane bellezza hollywoodiana, ma non per questo meno affascinante) che vive in solitudine nel suo appartamento a Baltimora.
Siamo nel 1962, nel pieno della Guerra fredda, e nell'aria si respira l'astio degli americani per i russi nella corsa alle conquiste spaziali. Lo sa bene Elisa, che lavora di notte come inserviente in una grande struttura governativa in cui scienziati e militari eseguono esperimenti e ricerche per la potenza americana.
In una sequenza di rituali che ogni giorno si ripetono allo stesso modo, entriamo nella vita di Elisa seguendola dalla notte, quando si sveglia e si prepara per recarsi al lavoro, al giorno, momento in cui rincasa e torna a dormire.
La monotonia della donna è spezzata dagli unici amici che ha: Zelda, una loquace collega di lavoro, e Giles, il suo vicino di casa. Con questi due personaggi (interpretati rispettivamente da Octavia Spencer e Richard Jenkins ed entrambi candidati all'Oscar come miglior attrice e attore non protagonisti) il regista evidenzia due temi di attualità e molto sentiti oggi come nell'America degli anni Sessanta in cui è ambientata la storia: la discriminazione etnica e l'omosessualità.
Zelda, infatti, è una esuberante donna afroamericana in eterna lotta con il marito fannullone, mentre Giles è un pittore gay con il cuore a pezzi. Entrambi sono ritenuti “inferiori” e “diversi”dal resto della società e, a mio avviso, c'è un personaggio che seppur secondario – praticamente una comparsa – incarna perfettamente il clima xenofobo e omofobo dell'epoca: si tratta del ragazzo che gestisce una tavola calda e di cui Giles è segretamente innamorato. In un'unica scena Guillermo Del Toro dà vita alle peggiori paure di un americano bianco bigotto: Giles si dichiara al ragazzo accarezzandogli la mano, mentre nel locale per soli bianchi (siamo ancora nell'epoca della segregazione razziale) entra una coppia nera. Il terrore sul volto del ragazzo è impagabile.
Tuttavia, anche la stessa Elisa è ritenuta “diversa”: una donna non completa a causa del suo mutismo causato dalla recisione delle corde vocali che ha subìto da neonata, prima di essere abbandonata.
In forte contrapposizione a questi personaggi spicca l'antagonista, il crudele colonnello Richard Strickland, l'incarnazione dell'americano vincente: un lavoro di successo nell'esercito, un carattere competitivo, una bella casa in periferia, in cui ogni giorno lo attende la perfetta mogliettina con due adorabili bambini.
Suo malgrado, Elisa si troverà a fare i conti con Strickland, chiamato per un'operazione top-secret presso la società governativa in cui la donna lavora. Elisa scopre che in uno dei laboratori è segregata una strana creatura anfibia antropomorfa, ritrovata nell'Amazzonia, dove era venerata come una divinità. La creatura è vittima di torture e umiliazioni da parte di Strickland, che vuole carpirne i poteri per sfruttarli conto i comunisti.
La creatura, che cerca di proteggersi dagli scienziati con la forza, sarà avvicinata con garbo e comprensione da Elisa. La donna, intrufolandosi nel laboratorio ogni giorno, inizia a intessere un rapporto speciale con l'uomo-anfibio, insegnandogli il linguaggio dei segni per comunicare.
La vita di Elisa sembra volgere al meglio, poiché si scopre innamorata della creatura: due esseri derisi e considerati inferiori per le loro diversità, che si trovano e comprendono grazie al linguaggio universale dell'amore.
La favola però è destinata a interrompersi bruscamente quando Elisa scopre che Strickland vuole uccidere la creatura per vivisezionarla. La donna coinvolge quindi Zelda e Giles in un piano dagli esiti incerti per salvare la creatura.
Una storia mozzafiato – in cui i destini dei personaggi si scontrano nella lotta tra buoni e cattivi (come ci insegnano i film di Steven Spielberg) e dal finale piacevolmente inaspettato – immersa in un'atmosfera onirica in cui il filo conduttore è l'acqua, elemento di vita e sopravvivenza.

lunedì 29 gennaio 2018

NAPOLI VELATA

di Ferzan Özpetek
2017

Siete pronti a tuffarvi in un tour nella Napoli barocca e misteriosa, alla scoperta di tradizioni e folklore centenari? Napoli velata, l'ultimo film di Ferzan Özpetek, non è infatti solo un thriller, ma un inno alla storia della città partenopea, che oggi conosciamo – purtroppo – principalmente per fatti di cronaca nera, ma che è depositaria di secoli di arte, storia, scienza e antiche usanze.
Napoli diventa un set a cielo aperto e lo spettatore viene condotto da Adriana, la protagonista interpretata da Giovanna Mezzogiorno, tra le intricate viuzze caratterizzate dai fili di bucato appesi da un'abitazione all'altra e la metropolitana, emblema della modernità e caratterizza da opere d'arte contemporanee di architetti, scultori e artisti e riconosciuta come la più bella del mondo (e ve lo posso confermare, avendola vista di persona!).
Incontriamo Adriana alla rappresentazione del “parto dei femminielli”, una messa in scena del parto interpretata appunto dai “femminielli”, storiche figure maschili effeminate che risalgono alla Napoli del Cinquecento. Qui Adriana, donna austera che esercita come medico legale in obitorio, viene sedotta da un giovane misterioso, Andrea.
Travolti da una passione repentina, i due passano la notte insieme e lui le dà appuntamento al museo archeologico per l'indomani. Pur trattandosi delle prime scene, si intuisce che questo incontro inaspettato ha dato una svolta alla vita di Adriana, donna sola e completamente dedita al lavoro.
Adriana si presenta al museo, girovagando per la sala conosciuta come la “stanza segreta” (o anche “gabinetto segreto”), colma di reperti archeologici di natura sessuale che le fanno ricordare la sfrenata notte di passione con Andrea. Questi, però non si presenta all'appuntamento.
Delusa, Adriana riprende la sua routine. Ma, quando scoprirà che il cadavere brutalmente seviziato che sta analizzando in laboratorio è quello di Andrea, la sua vita non sarà più la stessa. Alla ricerca della verità sull'omicidio del ragazzo, la donna si addentra nei misteri e nella storia di Napoli aiutata dall'amico di famiglia Pasquale, che lavora come guida alla “Farmacia degli incurabili”, antico edificio dai maestosi arredi barocchi e che ospitò i migliori scienziati in epoca illuminista.
Se già la vita di Adriana è sconvolta dalla tragica scomparsa di Andrea e da strane visioni, lo è ancora di più quando incontra Luca, il gemello del ragazzo. Adriana decide di ospitarlo in casa sua e tra i due nascerà un rapporto ambiguo e morboso.
Adriana è redarguita dalla zia Adele dall'indagare sull'omicidio, poiché capisce che la nipote si sta addentrando troppo nelle viscere di Napoli, una città – secondo lei – che ti consuma l'anima. Adele, seppur con toni severi, cerca semplicemente di proteggere la nipote da un oscuro passato che nasconde un grave segreto di famiglia. Tuttavia, Adriana si spinge oltre e scoprirà da sola cosa si nasconde dietro i tragici eventi che hanno segnato la sua infanzia.
Eppure, proprio grazie a questa grave scoperta, la donna riesce finalmente a comprendere molti aspetti della sua vita e a trovare la pace con se stessa.
Giunge inoltre alla conclusione che forse il mistero di Andrea non verrà mai del tutto svelato, nonostante le indagini della polizia. Ma, dopo essere scesa così a fondo nella sua anima e nel suo inconscio, Adriana è pronta a risalire verso la luce e vivere serenamente, accettando e superando i traumi dell'infanzia e cancellando i fantasmi che l'hanno ossessionata.
La critica non è stata molto clemente con questo lavoro di Özpetek. Credo invece che Napoli velata sia un film molto valido, sia per la caratterizzazione dei personaggi, soprattutto quelli secondari, così pittorici e stravaganti, sia per i colpi di scena che per l'ambientazione nella Napoli storica.
Inoltre, si intuisce il fine lavoro del regista, che ricorda i grandi maestri del cinema, primo fra tutti Alfred Hitchcock, ovvero l'inserire la presenza di un tema e un'immagine ricorrenti in tutta la storia. In questo caso si tratta del velo, che dà anche il titolo al film: lo stesso Özpetek ha dichiarato che il velo non è metafora dell'occultare, bensì dello svelare la realtà che sta sotto di esso. Il velo ritorna in molte scene: da quella iniziale della “figliata” a quella finale, in cui Adriana si trova nella Cappella Sansevero (edificata per volere del principe Sansevero, un intellettuale megalomane che per il popolo era un alchimista stregone) dinnanzi alla statua del Cristo velato che, secondo le credenze popolari, è così realistico che si pensa sia stato realizzato da uno scultore grazie a una formula magica di marmorizzazione creata dal principe Sansevero in persona.
Napoli velata è un film che consiglio a tutti per vivere la magia di questa città troppo spesso sottovalutata.

mercoledì 3 gennaio 2018

MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE?

 
di Philip K. Dick
1968
 
Da qualche tempo a questa parte mi sono addentrata in punta di piedi nel mondo della letteratura fantascientifica, grazie ad autori come Douglas Adams, Kurt Vonnegut e Herbert George Wells.
E poi sul mio percorso ho incontrato Philip K. Dick, che costituisce un punto di non ritorno e che mi ha risucchiata nel tunnel della fantascienza: una volta che ci entri è impossibile uscirne.
Questo perché la fantascienza permette agli scrittori di rendere possibile l'inverosimile e immaginare mondi in cui le persone, le cose e i fatti non hanno limiti. Ed è così che, mentre te ne stai seduto sui messi pubblici, in una fredda mattina, a leggerti Philip K. Dick, la tua mente prende una direzione opposta a quella verso cui stai andando: fisicamente sei diretto al lavoro, mentalmente sei in viaggio per Marte o chissà quale altro Mondo.
Philip K. Dick esercita un forte fascino sugli amanti del genere, nonostante i suoi mondi siano contornati da un'aurea nichilista e tetra e l'essere umano sia destinato alla distruzione di se stesso. La profondità dei temi che l'autore affronta getta le basi per una riflessione che va oltre la letteratura e sconfina nella filosofia. La sua intera opera è infatti intrisa di misticismo, esistenzialismo e pessimismo. Emerge in lui l'esigenza di comprendere e descrivere la storia dell'umanità, caratterizzata dalla lotta per il potere, dalle guerre e dal controllo sociale tramite la religione e l'autoritarismo.
Se in Dick non traspare nemmeno un barlume di positività è certamente dovuto alla vita turbolenta che ha vissuto: dall'infanzia caratterizza dalla morte prematura della gemella, dal divorzio dei genitori e dalla depressione della madre, all'età adulta caratterizza da cinque matrimoni e dall'uso medico di anfetamina – per curare la depressione dovuta alla schizofrenia – di cui è diventato dipendente. Pare che se ne servisse anche per scrivere a ritmi disumani. Il risultato sono infatti oltre quaranta romanzi e cento racconti, scritti fino al 1982, l'anno della sua morte e dell'uscita del film Blade Runner di Ridley Scott tratto dal suo romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Purtroppo per Dick, morirà prima di potersi godere la fama internazionale raggiunta grazie al film, divenuto nel frattempo un cult della fantascienza cinematografica. L'autore ebbe giusto il tempo di visionare alcune delle scene del film in fase di montaggio, apprezzandone il lavoro.
Il romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? affronta grandi temi quali le conseguenze che odio e guerra portano all'umanità (condannandola a vivere in un tetro mondo in cui piove polvere corroborante), le droghe e le allucinazioni, la religione come forma di controllo e la mancanza di relativismo, l'autorità e il controllo delle menti, l'apatia e la mancanza di emozioni (tanto che i protagonisti si servono di una macchina umorale, la Panfield, per generare e comandare i sentimenti) e, infine, il rapporto uomo / androide.
Siamo nel 1992, in una San Francisco desolata e quasi disabitata, come ormai tutta la Terra, a causa di una guerra atomica che ha spinto gli uomini a partire per le colonie extra-mondo. Solo pochi sono rimasti. Tra di loro c'è il cacciatore di taglie Rick Deckard, che vive in città insieme alla moglie Iran e alla loro pecora elettrica. Gli animali veri sono diventati una rarità e i pochi esemplari rimasti sono un bene di lusso che quasi nessuno può permettersi di acquistare.
Il lavoro di Deckard consiste nell'eliminare – in gergo “ritirare” – gli androidi (ovvero, macchine con fattezze umane) che si ribellano o che non hanno più alcuna utilità. Gli viene affidato il compito di ritirare sei replicanti di ultima generazione, modello Nexus 6, particolarmente pericolosi e fuggiti da una colonia extra-mondo.
Deckard accetta il difficile incarico, attirato dalla generosa ricompensa, con la quale vuole acquistare una pecora vera. Non sa ancora che questo incarico cambierà per sempre la sua concezione degli androidi e del lavoro che svolge.
La storia si sviluppa seguendo i canoni del romanzo poliziesco noir, insinuando nel lettore molti dubbi sull'innocenza dei personaggi, Deckard in primis. Durante la sua missione, l'uomo conoscerà alcuni androidi che lo spingeranno a dubitare di se stesso e della sua vita: l'affascinante Rachael, nella quale sono stati impiantati ricordi umani per renderla inconsapevole di essere una macchina, e il cacciatore di taglie Phil Resch, che gli mostrerà una visione diversa del mondo androide.
Uno dopo l'altro, Deckard riuscirà a ritirare tutti gli androidi, arrivando alla scontro finale (che, personalmente, mi aspettavo più epico, date le premesse) con quello più pericoloso.
Nonostante l'impronta noir, Ma gli androidi sognano pecore elettriche? resta a tutti gli effetti un romanzo di fantascienza che indaga a fondo il tema uomo versus macchina: così fragile e incapace di sfruttare le sue potenzialità il primo, tanto forte ma – fortunatamente – limitata la seconda.
È così che l'uomo riversa le sue conoscenze nella costruzione di una macchina destinata a volerlo distruggere per superarlo e prenderne il posto. Ciò che può salvare l'uomo non sono il potere o l'esercito, ma qualcosa che gli androidi non possono avere: i sentimenti e, nello specifico, l'empatia, ovvero la capacità di capire lo stato d'animo altrui.
E, tuttavia, pare che l'uomo, non l'abbia ancora capito e si ostini a volgere verso l'autodistruzione, in una lotta al potere in cui il più forte vince sul più debole. Proprio per questo, i romanzi di Philip K. Dick, scritti nel passato e rappresentati il futuro, sono in realtà molto attuali.