venerdì 21 luglio 2017

FLORENCE


di Stephen Frears
2016

Tempo d'estate, tempo di cinema all'aperto e di avere quindi la possibilità di recuperare alcuni film che mi sono sfuggiti nella stagione invernale. Uno di questi è proprio Florence, film autobiografico che racconta gli ultimi mesi di vita di Florence Foster Jerkins, ricchissima e generosa mecenate dell'alta società newyorkese della prima metà nel Novecento, convinta di avere – a torto – grandi doti canore.
L'interpretazione della camaleontica Meryl Streep incarna alla perfezione il personaggio di Florence, trasmettendo allo spettatore la personalità complessa – e, solo all'apparenza, frivola – di questa donna. Sin dall'inizio del film si presenta, accanto a Florence, il marito St. Clair Bayfield, interpretato da Hugh Grant.
Ammetto che inizialmente ho faticato non poco a calarmi nella storia e a focalizzarmi sui due come coppia sposata: abituata a vedere lui nei panni dello scapolo incallito e dopo aver visto tantissimi film – anche datati – di lei, è stato difficile superare l'ostacolo di guardarli come “attori” piuttosto che come “personaggi”.
Superato questo primo ostacolo ed entrando nel vivo della storia, sono riuscita ad apprezzare entrambi i protagonisti. Nella prima parte del film, infatti, risulta un po' difficile inquadrare i ruoli di Florence e St. Clair: lei è un'amante della lirica che ha fondato un circolo musicale, il “Verdi Club”, e passa le giornate dividendosi tra il lussuoso appartamento in città, le sale da the e i teatri; lui è un conte inglese senza titolo che si diletta a recitare durante gli eventi esclusivi promossi dalla moglie. I due vivono separati e la sera, dopo il bacio della buona notte, St. Clair esce di casa per dormire in un altro appartamento, in cui condivide il letto con un'altra donna.
La vita dei due sembra una farsa scandita da vizi, rituali quotidiani. Florence sembra una diva avvizzita e St. Clair un cicisbeo pronto a soddisfare ogni suo capriccio, rendendole la quotidianità perfetta e priva di intoppo.
Tuttavia, una volta presa confidenza con i due, si ha la possibilità di conoscerli più a fondo: Florence è una donna tenace che, per superare i limiti della malattia che la affligge, si dedica anima e corpo alla passione per la musica e il canto, mentre St. Clair si prodiga per rendere la vita della moglie perfetta, proteggendola dai pericoli del mondo.
Certo, i due vivono negli agi e nel lusso, eppure dimostrano di essere una coppia solida e devota, soprattutto quando Florence decide di riprendere con le lezioni di canto al fine di esibirsi per i suoi ammiratori della cerchia del Verdi Club. Dopo aver reclutato Cosmé McMonn, un giovane pianista – che inizialmente fatica a inserirsi nella quotidianità di Florence e a capire perché chi la circonda le pianifica una vita perfetta – Florence inzia con disastrose lezioni di canto. È evidente che sia stonata come una campana e, complice le mimiche facciali degli attori, le risate in sala tra gli spettatori del film si susseguono senza sosta. Eppure, Cosmè, inizialmente restio a esibirsi a teatro accompagnando Florence al piano, nota che il pubblico del Verdi Club è totalmente rapito dagli acuti della cantante. Si tratta di stima e affetto per una donna che, nonostante tutto, si impegna assiduamente in quello che crede, o sono le banconote che St. Clair infila nella busta insieme ai biglietti del concerto che fanno applaudire la platea?
La vera Florence Foster Jerkins era consapevole delle risate che si levavano comunque in sala ed era a conoscenza delle recensioni negative sulle sue performance, mentre la Florence del film viene tenuta all'oscuro delle voci maligne, messe a bada a suon di banconote dal marito.
La situazione rischia però di sfuggire al controllo di St. Clair quando Florence, in sua assenza, organizza un concerto in grande stile al Carnegie Hall, per il quale invia centinaia di biglietti omaggio ai soldati delle truppe americane impegnate durante il secondo conflitto mondiale. Al concerto parteciperanno migliaia di persone e per St. Clair sarà ovviamente impossibile esercitare il controllo su di loro.
Il 25 ottobre 1944 Florence salirà sul palco per un'esibizione memorabile che, non senza difficoltà, le permetterà di realizzare il suo sogno di cantante lirica, prima di spegnersi il 26 novembre di quello stesso anno.
La singolare storia di Florence ci insegna che bisogna credere nei propri sogni e, se si deve sognare, bisogna farlo in grande. Certamente il caso di questa donna è raro e supera la normalità – quanti di noi potrebbero permettersi si affittare teatri a New York o pagare un pubblico perché applauda a comando? – eppure, la tenacia di Florence l'ha fatta amare e apprezzare dai suoi seguaci, rendendola immortale nella storia della lirica.



mercoledì 19 luglio 2017

PASTO NUDO

di William S. Burroughs
1959

Quello che ho appena chiuso è uno dei libri più impegnativi che abbia mai letto. Pasto nudo entra di diritto nella mia lista personale di libri “difficili” e al tempo stesso unici e toccanti, facendo compagnia ad Arancia meccanica (1962) di Anthony Burgess, Paura e disgusto a Las Vegas (1971) di Huter S. Thompson, L'innocenza delle caramelle (1954) di Tennessee Williams e Sulla strada (1951) di Jack Kerouac.
E proprio Kerouac avrebbe convinto l'amico Burroughs a pubblicare l'opera, che nasce come un insieme di pensieri deliranti messi nero su bianco. Si dice che Kerouac abbia trovato Burroughs a terra, ricoperto di fogli, in stato di delirio e, una volta lette tutte le pagine, lo abbia convinto a pubblicarle in forma di romanzo.
Nasce così Pasto nudo, un'opera che ha reso immortale Burroughs non solo tra gli autori della cerchia della Beat Generation (che lo hanno eletto a loro padre spirituale) ma anche nell'intera letteratura.
Burroughs, in un post scriptum, spiega il significato del titolo: «Pasto NUDO – l'istante, raggelato, in cui si vede quello che c'è sulla punta della forchetta». Il titolo è stato scelto da Kerouac.
Tra gli amici legati alla Beat Generation, spicca soprattutto Allen Ginsberg, con il quale Burroughs ebbe una relazione. Nonostante la sua aperta omosessualità, l'autore si sposa due volte e ha un figlio. Si sposa una prima volta per fare ottenere un visto a un'amica e una seconda volta con una donna con la quale ha in comune la tossicodipendenza.
Quella di Burroughs non è stata una vita facile: viene allontanato dalla famiglia (che lo ha comunque sempre mantenuto); è costretto a vivere nei tuguri delle grandi città americane in preda al delirio da astinenza per la maggior parte del tempo, senza lavarsi anche per molti mesi di fila e vivendo in una dimensione temporale scandita solo dalla ricerca della prossima dose.
Credo che sia importante soffermarsi sulla condizione di vita di questo scrittore per cercare di capire, per quanto possibile, Pasto Nudo. Il romanzo è infatti un delirio totale in cui l'autore esprime le immagini confuse che popolano la sua mente di tossico. È molto difficile, a tratti frustrante, leggere queste pagine senza capirne totalmente quello che Burroughs racconta. Si è costretti a tornare indietro a rileggere alcuni passi, poiché si è sicuri che ci sia un certo personaggio che compie determinate azioni e poi, all'improvviso, ci si ritrova, senza sapere come, in un'altra situazione.
Come se non bastasse, a dare del filo da torcere anche al lettore più attento c'è anche la tecnica di scrittura definita cut-up: il testo scritto – già di suo delirante – viene fisicamente tagliato e le singole parti vengono quindi mischiate e rimesse insieme in ordine sparso. Il risultato è un testo dalla forma sconnessa e senza logica.
L'impenetrabilità di Burroughs non deve però scoraggiare. Le parole sono poesia e, nonostante si racconti di droga, astinenza, sofferenza e vita di strada, il linguaggio con cui l'autore scrive è così aulico che si scontra con la “bassezza” dei temi trattati. 
Nei momenti di massimo delirio Burroughs racconta di due stati immaginari, Anexia e Terra Libera, in cui la popolazione vive nel degrado in tanti appartamenti-tuguri in cui ricevono visite improvvise dalle autorità e delle forze dell'ordine. La gente vive sotto controllo e sotto stretta osservazione da parte delle forze sociali, controllate da ministeri autoritari, come una sorta di 1984 alla George Orwell. Ma, forse, questo non è il delirio di un tossico, quanto piuttosto una forte critica che l'autore muove alla società americana.
In numerosi punti del romanzo, stupisce molto come al delirio puro si alternino fasi di descrizione lucida per spiegare al lettore le varie tipologie di droghe e gli effetti che hanno sul fisico e sugli organi del corpo. Burroughs, che si è praticamente fumato, sniffato e iniettato qualsiasi tipo di droga e sostanza chimica, spiega, in una lunga nota, anche tutti i tipi di cure che nei decenni ha provato per disintossicarsi.
William Burroughs ha lasciato il segno nella letteratura mondiale, diventando un punto di riferimento, non solo per gli autori a lui contemporanei della Beat Generation, ma anche per quelli successivi. Ha inoltre partecipato come comparsa in un videoclip degli U2 e in alcuni film, come Drugstore Cowboy (1989) di Gus Van Sant (film che ho visto di recente e in cui, ammetto, ho guardato a Burroughs con una sorta di reverenza quando, nella parte finale del film, appare nei panni di un vecchio prete tossicodipendente – ma tu sai che dietro quel nonnino gracile e ingobbito si cela la mente di un folle che ha segnato un'epoca della storia della letteratura).