martedì 29 ottobre 2019

JOKER


di Todd Phillips
2019
[contiene spoiler]

Se non daranno l'Oscar a Joaquin Phoenix mi arrabbierò. E molto. La sua interpretazione in Joker è a dir poco magnifica e struggente.
Al di là del legame che il personaggio ha con il mondo dei fumetti e dei super-eroi – mondo che, personalmente, non mi ha mai attirato (ma, del resto, de gustibus non est disputandum) – questo film rappresenta un capitolo a sé che chiunque può guardare anche senza saper nulla riguardo Batman e compagnia bella.
Lo scopo del regista è di raccontare le origini di Joker, acerrimo nemico di Batman, eppure la storia della trasformazione di Arthur Fleck da psicolabile emarginato a folle re del crimine di Gotham City è un racconto a sé stante, che narra di emarginazione sociale, degrado urbano e violenza.
Già dall'inizio si percepiscono tensione e angoscia attorno al protagonista, un aspirante cabarettista fallito di Gotham (oscura metropoli che rappresenta la versione più torva dei bassifondi di New York) con disturbi mentali che ripiega sul lavoro di clown per sopravvivere.
Immediatamente arriva la prima scena di violenza selvaggia, con il pestaggio di Arthur, da parte di alcuni teppisti, degno dei Drughi di Arancia Meccanica (1971, Stanley Kubrick).
La violenza sembra essere l'unico linguaggio per comunicare il malessere delle fasce più povere della popolazione di Gotham, in cui ferve la campagna elettorale per l'elezione del nuovo sindaco.
Il candidato favorito è Thomas Wayne (padre del piccolo Bruce, futuro Batman), ricco e sprezzante uomo d'affari presso cui in passato lavorò a servizio la madre di Arthur, Penny.
La donna, che vive insieme al figlio in uno squallido appartamento il cui focolare è la tv perennemente accesa, scrive continuamente lettere a Thomas Wayne, chiedendogli un aiuto economico e vive ingenuamente nell'illusione che un giorno le risponderà.
L'unico che si prende cura della madre in modo amorevole è Arthur che, tra un incontro con lo strizzacervelli e squallide esibizioni da clown che non fanno ridere nessuno, condivide con lei la passione per lo show televisivo condotto da Murray Franklin. L'aspirazione di Arthur è diventare un grande comico come Franklin. Arthur ancora non lo sa ma, ben presto, diventerà molto più famoso di lui proprio grazie al suo programma.
La misera vita di Arthur non potrebbe andare peggio, dopo che sono stati annunciati tagli ai servizi sociali e dovrà quindi rinunciare alla sua terapia e ai farmaci.
Ma il peggio arriva con il licenziamento: viene infatti scoperto con una pistola durante un'esibizione per piccoli pazienti in ospedale e il suo capo lo caccia. Di ritorno a casa sulla metro, Arthur viene bullizzato da tre ragazzi in giacca e cravatta (una vera e propria reincarnazione dei Drughi di Kubrick, a mio avviso) che lo pestano selvaggiamente. Ma, all'improvviso, bang!
Arthur spara senza pietà ai tre damerini e fugge, con il volto ancora dipinto da pagliaccio per l'esibizione in ospedale. La polizia diffonde l'identikit del misterioso assassino con il volto di clown che, forte del fatto che i tre assassinati lavoravano per Wayne, diventa subito il simbolo della lotta contro il candidato sindaco da parte dei poveri di Gotham. L'assassino viene osannato come eroe dai manifestanti, che indossano maschere da clown durante le sommosse.
Dopo il triplice omicidio, Arthur guadagna fiducia in se stesso e la vita, finalmente, gli sorride: esce con Sophie, ragazza-madre che abita nel suo palazzo, si esibisce in un numero di cabaret in un locale e il suo idolo, Murray Franklin, lo invita a partecipare al suo show in tv.
Tuttavia, la situazione precipita nuovamente quando Arthur, per caso, legge una delle lettere che la madre scrive a Wayne. Apprende che Wayne è il suo vero padre e decide che è giunto il momento di riscuotere quanto gli spetta per essere il figlio del candidato sindaco di Gotham.
Arthur riesce a incontrare l'uomo e a spiegargli chi è, tuttavia il suo entusiasmo viene raggelato con le inaspettate rivelazioni di Wyane: Penny aveva disturbi mentali e adottò Arthur nella speranza di farlo passare per figlio illegittimo di Wayne e avere un tornaconto economico. Ma non è tutto: indagando sul passato della madre, Arthur scopre che fu internata in manicomio e, in seguito, permise al suo fidanzato di abusare di lui. Chi non sarebbe sconvolto dopo aver appreso questo sulla propria madre?
Eppure, il regista riesce a insinuare un dubbio sulla veridicità dei fatti: e se Arthur fosse veramente il figlio illegittimo di Wayne e Penny fosse stata internata per insabbiare l'accaduto? Se così fosse, Joker e Batman sarebbero fratellastri, uno cresciuto nell'agio e l'altro nella povertà.
Potrebbe essere, a mio avviso, un'ipotesi plausibile, dato che a un certo punto la realtà e la fantasia si confondono: scopriamo che Arthur non ha mai avuto nessuna relazione con Sophie e quindi, come facciamo a essere sicuri che tutto quello che abbiamo visto fin'ora sia realmente accaduto e non sia frutto dei desideri e della mente folle di Arthur?
Quello che è certo è che Arthur crede alla versione di Wayne e decide di mettere in atto un folle piano da cui nessuno dovrà uscirne vivo.
Da insicuro clown, Arthur si trasforma in Joker, spavaldo omicida dai capelli verdi in completo rosso che gira per le strade in subbuglio di Gotham, inseguito da poliziotti inetti che se lo lasciano sfuggire.
La sua trasformazione è straordinaria, e non mi riferisco solo all'aspetto esteriore: il camaleontismo dell'espressività di Joaquin Phoenix è da Oscar!
Joker è ormai diretto verso la meta finale, gli studi televisivi dello show di Franklin, il quale è ignaro che la sua fine è vicina.
Dopo aver messo in scena un omicidio in diretta, per la gioia dello share, Joker viene eletto a idolo delle folle in rivolta e osannato come capo assoluto di Gotham.
Fuggito dal manicomio in cui tentanto di internarlo, inizia così la leggenda del Joker che tutti conosciamo.
Eppure, non si dissolve il dubbio che possa essere tutto frutto della mente distorta di Arthur.
Possibile che Murray lo abbia veramente invitato al suo show? Ha davvero avuto il coraggio di sparare ai tre damerini nella metro? La folla lo ha aiutato a fuggire dalla polizia, osannandolo come una divinità eretta sul cofano della volante distrutta da alcuni manifestanti mascherati?
L'ipotesi è avvalorata dalla scena finale, quando un'assistente sociale del manicomio gli chiede di raccontale la barzelletta che lo fa tanto ridere e lui le risponde che non la capirebbe. A questa parole si alternano le immagini dell'omicidio di Wayne e della moglie in un vicolo a opera di un manifestante mascherato da Joker, sotto gli occhi del piccolo Bruce. Subentra poi la voce soave di Frank Sinatra che canta That's Life accompagnando i passi che lasciano impronte insanguinate di Joker che corre tentando la fuga dal manicomio.
Siamo sicuri che “il” Joker sia effettivamente Arthur Fleck?

giovedì 29 agosto 2019

IL TALENTO DI MR RIPLEY


di Patricia Highsmith
1955

Patricia Highsmith, con questo romanzo, è riuscita a creare un personaggio immortale, quasi un prototipo del geniale imbroglione. Tom Ripley è timido ma scaltro, bugiardo, anonimo tanto da passare sempre inosservato, non spicca ma sa farsi valere e quando vuole qualcosa la ottiene, non importa come. Il suo cinismo lo porterà dall'essere un piccolo truffatore a ricco uomo di mondo.
Tom è un giovane newyorkese che vive modestamente, senza un impiego fisso. Piuttosto che lavorare come qualsiasi comune mortale, si ingegna per vivere di rendita grazie a piccole ma numerose truffe agli uffici statali e alle banche.
La sua vita è ben lungi dall'essere tranquilla: è costantemente paranoico, terrorizzato di essere seguito da qualche truffato o dalla polizia. È per questo motivo che accetta volentieri l'incarico di Herbert Greenleaf, un ricco uomo d'affari, il cui figlio, Dickie, se la sta spassando in Italia tra vita mondana, aperitivi e gite in barca, senza avere intenzione di rientrare in America per lavorare nell'azienda di famiglia.
Greenleaf, convinto da Tom che questi sia un caro amico del college di Dickie, gli offre un compenso e un viaggio spesato nel Bel Paese per convincere il figlio a ritornare a casa.
Ripley raggiunge così Mongibello, un paesino di invenzione della scrittrice e che si trova in provincia di Napoli. Attraverso una serie di bugie e sotterfugi, Tom si approccia a Dickie e alla sua fidanzata Marge, facendogli intendere di avere frequentato le stesse scuole e la stessa cerchia di amici a New York. Tom non lascia nulla al caso: si è documentato in modo accurato su luoghi e persone e ha pianificato ogni battuta del copione che recita con Dickie.
Dopo aver conquistato la fiducia del giovane rampollo, Tom si ambienta a Mongibello e si abitua allo stile di vita italiano, passando le giornate in ozio tra bagni di sole, aperitivi e gite in barca.
Il rapporto tra Tom e Dickie si fa sempre più stretto, tanto che Tom inizia morbosamente a desiderare di essere Dickie. Chi non accetta l'invasione di Tom, che nel frattempo si è stabilito nella casa di Dickie, è invece Marge, che nutre nei suoi confronti sospetto e gelosia.
I due ragazzi trascorrono infatti sempre più tempo insieme, passando anche alcune notti fuori Mongibello. Tom, ben lontano dal riportare a casa Dickie, è intenzionato a sfruttare al massimo i soldi del giovane ricco e del signor Greenleaf.
La preoccupazione di Marge per la pessima influenza di Tom su Dickie accresce sempre più, fino a trasformarsi in vera e propria disperazione quando Tom fa ritorno da una gita a Sanremo senza Dickie. Ripley spiega alla ragazza che il fidanzato ha deciso di fermarsi a Roma e che ha bisogno di stare da solo.
Menzogna dopo menzogna, Tom Ripley costruisce una storia per giustificare l'assenza di Dickie e coprire le tracce del misfatto compiuto per sbarazzarsi dell'amico. Quello che rimane di Dickie sono due anelli che portava sempre e che, da adesso, sono indossati da Tom.
Ecco che inizia così la seconda parte del romanzo, ambientata prima a Roma e poi a Venezia.
Tom, grazie alla rendita che incassa al posto di Dickie, prende casa in uno splendido palazzo nella capitale e inizia a vivere l'esistenza che ha sempre sognato: una vita solitaria fatta di mostre d'arte, passeggiate tra i monumenti, ristoranti e serate passate a suonare il pianoforte.
C'è qualcosa di inquietante in Tom, poiché non solo si sostituisce a Dickie, ma ne assimila anche i modi di fare, la parlata e la postura, oltre che a indossare i suoi vestiti.
Nonostante la ricchezza raggiunta, la paranoia prende nuovamente il sopravvento su Tom. A quanto pare, per i giovani rampolli amici di Dickie l'Italia è il must per passare le vacanze e sperperare i soldi dei genitori. Sembra che tutti loro siano alla ricerca di Dickie, che non si è presentato ad alcuni eventi mondani per lui irrinunciabili, come l'annuale raduno per sciare a Cortina.
Un giorno, alla porta di Tom/Dickie si presenta Freddie Miles, che ha scovato l'indirizzo dove l'amico alloggia a Roma. Per Tom diventa complicato tenere a bada Freddie, che non crede alla storia inventata dal ragazzo per giustificare l'assenza dell'amico. La situazione si complica ulteriormente con l'arrivo sia di Marge, intenzionata ad avere da Dickie delle spiegazioni sulla loro rottura, che della polizia che sta indagando sul ritrovamento di una barca con tracce di sangue rinvenuta a Sanremo.
Tom si sente in trappola: deve fingere con Freddie e Marge per coprire l'assenza di Dickie e, al contempo, recitare la parte di Dickie con la polizia, che lo crede coinvolto nell'omicidio di Tom.
Le abilità istrioniche di Tom/Dickie si sviluppano in un crescendo di suspense che coinvolge il lettore, travolgendolo nelle imprese di Ripley al limite del possibile per non essere smascherato.
Sebbene sia un personaggio con valenza negativa, è spontaneo tifare per Tom Ripley, il quale suscita soprattutto empatia per il modo in cui si cruccia nella sua aspirazione di voler far parte di un mondo snob ed elitario, le cui persone però intuiscono le sue umili origini e le sue mire, non accettandolo così del tutto.
Eppure Tom si ostina nel suo obiettivo, arrivando a compiere omicidi e raggiri, che lo porteranno a rifugiarsi a Venezia. Marge, altrettanto caparbia e sfiduciata dal lavoro della polizia, gli resterà alle costole, coinvolgendo nelle ricerche il padre di Dickie e un investigatore privato. Riuscirà Ripley a farcela anche questa volta?
Questo thriller psicologico si legge tutto d'un fiato, nonostante il ritratto dell'Italia che ne emerge sia poco edificante e stereotipato. La trama è ben congegnata e le azioni si sviluppano in un crescendo incalzante.
Il successo del personaggio letterario di Ripley è stato tale che Patricia Highsmith ha scritto altri quattro romanzi incentrati su di lui: Il sepolto vivo (1970), L'amico americano (1974), Il ragazzo di Tom Ripley (1980) e Ripley sott'acqua (1991). Anche le numerose trasposizioni cinematografiche hanno contribuito a rendere famoso sia il protagonista che la scrittrice, già molto amata dal regista Alfred Hitchcock che traspose il suo primo romanzo, Sconosciuti in treno (1950), nel film L'altro uomo (1951).






mercoledì 29 maggio 2019

IL RICHIAMO DELLA FORESTA



di Jack London
1903

Sono sempre più convinta che frequentare un gruppo di lettura sia estremamente stimolante.
È vero, comodini e scaffali di casa sono già invasi da cataste di libri in attesa di essere letti, ma una volta al mese è anche interessante uscire dai propri schemi e preferenze di genere, per dedicarsi a quei piccoli ma grandi tesori che la letteratura – soprattutto del passato – ci ha regalato e che magari ancora non abbiamo scoperto.
E così, puoi scoprire che un romanzo tanto noto, quanto personalmente ignorato, è bellissimo e ti maledici un po' per non averlo letto prima.
Sto parlando de Il richiamo della foresta di Jack London.
Il romanzo narra delle vicende e della sorprendente trasformazione di Buck, giovane esemplare di incrocio tra San Bernardo e Pastore Scozzese, che assomiglia a un gigantesco lupo. Buck vive nell'assolata California, nella fattoria del giudice Miller. Tra tutti i cani che vi abitano, Buck è il preferito e si muove indisturbato in ogni angolo della magione, scorrazzando libero, ma consapevole di avere un rifugio, coccole e un pasto caldo che lo aspettano ogni giorno.
Siamo nel 1897 e impazza la corsa all'oro nel Klondike, una remota e inospitale regione del Canada Nord Occidentale in cui gente da ogni parte del mondo si riversa per conquistarsi l'agognato metallo prezioso. Indispensabile per ogni cercatore d'oro è avere una muta di cani da slitta, unico mezzo all'epoca disponibile per percorrere le distese di ghiacciai.
Il giardiniere del giudice Miller rapisce Buck e lo vende a un trafficante di cani che, a sua volta, lo rivende a un temibile addestratore, ribattezzato “l'uomo dal maglione rosso”. Buck è costretto a subire ogni tipo di maltrattamento e violenza, ma la sua tempra gli permette di resistere alle angherie e di mostrare tutta la sua forza.
Non solo il rapporto con gli umani è terribile. Non vi è pace nemmeno tra il gruppo di cani da slitta cui Buck entra a far parte durante l'addestramento: il più forte sopravvive, il più debole muore. Il duro addestramento deve preparare la muta a resistere alle condizioni di vita più estreme.
Buck riesce ad affermarsi nel branco e a diventare il cane in testa alla slitta, un posto riservato solo al più forte.
Dopo essere passato per diversi padroni in cerca di oro, Buck passa a John Thornton, anch'egli in cerca di fortuna ma, diversamente da tutti gli uomini incontrati fino a ora, con un lato umano. Tra il cane e Thornton si instaura da subito un legame fortissimo di lealtà e affetto, tanto che Buck salverà la vita al padrone in diverse occasioni, dimostrandosi fedele e pronto a sacrificarsi.
In viaggio verso una miniera d'oro abbandonata, Buck sembra avere finalmente trovato il giusto equilibrio: una vita all'aria aperta, a contatto con la natura, ma al fianco di un padrone che lo ama e dal quale far sempre ritorno a fine giornata.
In realtà, qualcosa si muove in Buck: l'attuale condizione non è un punto di arrivo, ma uno snodo verso un'ulteriore evoluzione. Buck, a contatto con la foresta che ogni giorno esplora sempre più a fondo, inizia a sentire un richiamo, dapprima lontano e indistinto, che si fa velocemente più chiaro e nitido.
Il cane capisce che è inevitabilmente attratto dagli spazi più reconditi e oscuri della macchia verde, nella quale si spinge sempre più a fondo, allontanandosi per giorni interi dall'accampamento di Thornton. Qui, l'istinto primordiale di Buck si amplifica fino all'apice con l'uccisione di un gigantesco alce.
Di ritorno all'accampamento, Buck scopre che il padrone è stato brutalmente ucciso dai nativi americani. Ecco il punto di rottura con qualsiasi legame con l'uomo: accecato dalla sete di vendetta, Buck stanerà gli assassini di Thornton e scaglierà contro di loro tutta la sua furia omicida, fuggendo poi nella foresta.
Inizia così la leggenda del temibile lupo che domina la vallata, imbattibile e libero.
Appena terminata la lettura, ho provato dispiacere per il destino di Buck, privato dell'amore di Thornton e di una vita in perfetto equilibrio, tra natura e addomesticamento. Poi però, dopo averne ampiamente discusso con il gruppo di lettura, ci ho ripensato: il finale è quello giusto per il protagonista. L'istinto primordiale stimolato dalla foresta va assecondato, poiché risiede nella natura stessa di Buck e non deve essere represso.
Tolto dal suo contesto nativo di agio e comodità dal giudice Miller e trovatosi nella natura più selvaggia ed estrema, Buck si è abilmente – e non senza difficoltà – adattato alle circostanze, dimostrando il suo valore, consapevole che non si può tornare indietro e riavere la vita di prima alla fattoria. E di questo, deve esserne consapevole, seppure a malincuore, anche il lettore.

domenica 5 maggio 2019

MORTO CHE CAMMINA



di Irvine Welsh
2018

Uno dei miei romanzi preferiti in assoluto è Trainspotting (1993), che considero la mia personale pietra miliare che ha infuso in me l'amore per la lettura (trovate qui la recensione).
Negli anni Welsh ha scritto diversi libri in cui, in modo più o meno diretto, ha sviluppato le avventure e disavventure dei quattro ragazzi scozzesi (Mark Renton, Sick Boy, Frank Begbie e Spud) protagonisti di Trainspotting.
Eppure, nessuno di questi sequel mi ha colpita come Morto che cammina, in cui troviamo il quartetto, ormai cresciuto, che supera i cinquant'anni all'anagrafe (ma non nella testa). Qui si ritrovano nella loro purezza originaria i protagonisti, ai quali l'autore dà voce a capitoli alterni, così da entrare in sintonia con i loro pensieri.
Lo stile di Welsh non conosce rivali: pungente, ironico, spassoso, a tratti commovente e nostalgico. Potrei continuare all'infinito per descrivere il romanzo che, a mio avviso, è il degno sequel di Trainspotting.
Tutto ciò si trova concentrato in quella che è per me la scena epica del romanzo: il pallido Spud è sdraiato su un tavolo operatorio improvvisato in un capannone fatiscente e abbandonato di Berlino e Sick Boy sta guardando un video di You Tube su come eseguire un intervento chirurgico, mentre Renton gli viene in soccorso portandogli una batteria per tenere acceso il computer mezzo scarico.
Cosa ci fanno i tre vecchi soci in questa situazione paradossale e, a tratti, demenziale?
Alla fine di Trainspotting, avevamo lasciato i quattro tossici di Leith divisi e inimicati da un affare di soldi, con Renton in fuga col bottino da un furioso Begbie.
Ebbene, dopo molti anni, su un volo di lusso intercontinentale un indaffarato Renton incontrerà un abbronzatissimo e rilassato Begbie. Sembrano lontanissimi i tempi in cui il primo provava qualsiasi tipo di droga nei posti più fatiscenti di Edimburgo e il secondo accoltellava chiunque osasse guardarlo negli occhi.
Renton è diventato proprietario di un'agenzia di dj di fama internazionale e si divide tra l'Olanda e l'America, affrontando il jet lag e i capricci dei suoi clienti a colpi di sniffate.
L'unico veramente maturato pare essere Begbie che, da rissoso psicopatico, si è trasformato in acclamato e straricco artista, ammogliato a una super bionda californiana, con la quale si è stabilito nell'assolata Californiana, con tanto di prole. Welsh ha già avuto modo di approfondire l'incredibile trasformazione di Frank – che ora si fa chiamare Jim Francis – dedicandogli il romanzo L'artista del coltello (2016).
Nel frattempo, in quel di Edimburgo, ritroviamo l'incorreggibile Sick Boy, tornato in città per le feste natalizie. Il cinico Simon Williamson non se la passa male: come sempre amante del gentil sesso, è ora proprietario di un'agenzia di escort e vive a Londra, dove frequenta i posti più esclusivi. Gli basterà tornare a casa dalla famiglia per creare scompiglio e rovinare in un attimo il matrimonio di sua sorella.
Lo scherzo che gioca al cognato innescherà una serie di conseguenze che coinvolgeranno i tipi più loschi di Leith e porteranno il povero Spud – ormai ridottosi a tossico mendicante – con le budella al vento in quel di Berlino.
Nonostante i quattro conducano ormai vite completamente diverse e a chilometri di distanza, la cara vecchia Edimburgo li attira a sé e li risucchia, restituendoli trasformati e con il vecchio incomprensibile accento. Insomma, il marchio dei bassifondi di Leith è indelebile.
Leggendo il romanzo ci si chiede se sia veramente tutto come sembra, e non si può essere esenti dal fare continui paragoni tra i protagonisti così come sono adesso e come ce li ricordavamo in Trainspotting. Bisogna arrivare alla fine di Morto che cammina per capire quale dei quattro storici amici-nemici è davvero cambiato e chi, invece, è rimasto lo stesso.
Il romanzo è ricco di colpi di scena e gli intrecci delle vicende sono ben congeniati. La storia è un concentrato di emozioni: a tratti fa ridere, mentre altrove fa provare nostalgia dei vecchi tempi, oppure fa arrabbiare per gli stessi errori in cui i protagonisti ricascano come ai tempi di Trainspotting.
Il finale aperto mi lascia sperare che un giorno Irvine Welsh possa scrivere ancora dei quattro ragazzacci di Leith. Incrocio le dita!



venerdì 1 febbraio 2019

LA MACCHIA UMANA







di Philip Roth
2000

Da tempo speravo di avere l'occasione per leggere finalmente un romanzo di Roth. Sommersa dai libri sugli scaffali della mia libreria e che aspettano di essere letti, insieme a quelli segnati sulla mia “lista dei desideri”, avevo momentaneamente accantonato la speranza.
Ma ecco che La macchia umana mi arriva tra le mani direttamente dal gruppo di lettura che seguo nella biblioteca della mia città. Vi assicuro che quando a ogni incontro viene svelato il romanzo per la volta successiva è sempre una festa, ma se capitano un autore o un'opera sulla famosa “lista” la gioia è ancora maggiore.
Philip Roth è riconosciuto come uno dei maggiori scrittori contemporanei, un acuto indagatore della realtà umana, nonché grande critico della società americana. Ne La macchia umana Roth concentra la sua vena accusatoria, realizzando un romanzo-bomba pronto a esplodere. La storia del protagonista, Coleman Silk, mostra i limiti del genere umano e le fragilità di un popolo falsamente perbenista.
Non a caso, infatti, le vicende sono ambientate nel 1998, anno del Sexgate, lo scandalo sessuale che travolse l'allora presidente Clinton e la giovane stagista della Casa Bianca, Monica Lewinsky.
Il vecchio Silk è una personalità di spicco nel mondo accademico di Athena, cittadina del New England, nella quale è preside di facoltà presso la locale università e in cui vive con la moglie. L'uomo è un forte punto di riferimento per studenti e colleghi, eppure si rende colpevole di un involontario atto che si trasforma subito in accusa di razzismo. A fomentare l'accaduto interviene la giovane collega, Delphine Roux, che ne approfitta per montare un caso senza precedenti e che obbligherà Coleman ad abbandonare l'insegnamento. Come se non bastasse, poco tempo dopo, sua moglie muore.
Coleman, deciso a riabilitare la propria reputazione, chiede aiuto a uno scrittore, Nathan Zuckerman (al quale è affidata la narrazione) per scrivere un libro in cui raccontare la sua verità. Coleman infatti nasconde da sempre un grosso segreto, che riguarda il suo retaggio e che lo scagionerebbe da ogni accusa di razzismo.
Tra Nathan e Coleman inizia a instaurarsi un rapporto di amicizia, eppure l'anziano preside non riesce a darsi pace per la morte della moglie e le false accuse. Egli tenta di alleviare la sofferenza cercando conforto tra le braccia di Faunia, una ragazza analfabeta che è addetta alle pulizie all'università e con gravi trascorsi di violenze domestiche e sessuali, perpetrate prima dal patrigno e poi dall'ex marito, Les Farley.
Con lui Faunia aveva creato una famiglia, distrutta poi tragicamente in un incendio. Les, uomo violento e reduce del Vietnam, non ha mai perdonato la moglie, incolpandola della morte dei loro figli.
Non tutti sembrano d'accordo sulla relazione tra Coleman e Faunia. Delphine Roux, che non condivide la grande differenza di età tra i due amanti e la loro diversa estrazione sociale, ne è disgustata ed è decisa a punire, in nome di chissà quale distorto principio femminista, l'ex preside. Anche Les Farley, sofferente di disturbi post traumatici da guerra, è deciso a convogliare tutta la sua folle rabbia sulla coppia, fino al tragico epilogo.
In realtà, quasi da metà romanzo si può intuire quale sorte toccherà a Coleman, eppure la costruzione dell'intreccio eseguita da Roth è magistrale: semina nel testo indizi e rivelazioni senza darne subito una spiegazione; avendo già intuito cosa accadrà, il lettore diventa così avido e, pagina dopo pagina in un climax di tensione, vuole arrivare al fatto compiuto e saperne i dettagli.
La costruzione dei personaggi è molto articolata e l'autore analizza l'animo di ciascuno di essi, ricostruendone le vicende personali del passato che li hanno resi ciò che sono. Si può così affermare che, sebbene il protagonista sia Coleman Silk, a più riprese nei vari capitoli, lo sono anche un po' tutti gli altri personaggi.
Attraverso di loro, Philip Roth realizza un quadro chiaro e realistico della società americana, sgonfiando il mitico “sogno americano”, per svelare una realtà fatta di razzismo, ipocrisia, solitudine, conformismo, arrivismo accademico e strascichi psichici dei soldati lasciati dalle “gloriose” guerre combattute per portate la democrazia. In sintesi, il falso moralismo, quello dell'America in cui “si fa ma non si dice” (e stupido Clinton a essersi fatto beccare, doveva stare più attento).
Come spiega Faunia – che non è sciocca come tutti credono – la macchia umana è insita in ciascuno di noi, è qualcosa che ci contagia stando a contatto con i nostri simili e che trasmettiamo al prossimo. La macchia si propaga e contamina la natura e la bellezza primitiva del mondo, finché esse saranno distrutte completamente.
Consiglio vivamente la lettura di questo romanzo. Pagina dopo pagina si impara a conoscere a fondo ogni personaggio, anche se permane il dubbio su chi di loro si possa salvare veramente.