lunedì 13 febbraio 2017

CENERE (racconto inedito)



Quello che leggerete di seguito è un 'esperimento' nel quale ho deciso di fare incontrare, dopo trent'anni, due dei personaggi del libro che sto per finire di leggere in questi giorni: “Suite francese” di Irène Némirovsky.
Si tratta di un romanzo corale incompiuto (a causa della morte dell'autrice in un campo di concentramento), con un susseguirsi di personaggi che si incontrano, scontrano o si incrociano per pochi attimi nella primavera del 1941, durante l'occupazione nazista della Francia. I soldati tedeschi di istanza in Francia vengono 'ospitati' presso le abitazioni dei paesini rurali conquistati, dove sono rimaste solo le donne con i bambini, mentre gli uomini sono prigionieri o a combattere.
Bruno von Frank, ufficiale tedesco di ventiquattro anni, viene alloggiato nella villa di campagna della famiglia Angellier, a Bussy, a est di Parigi. Qui vi sono la matrona, Madame Angellier, e la nuora, la dolce Lucile. L'uomo di casa, Gaston (figlio di Madame Angellier, nonché marito di Lucile) è prigioniero in un campo in Polonia.
Mi auguro che, dall'incontro immaginario tra Bruno e Lucile che leggerete di seguito, capirete cosa fosse successo tra i due nel 1941...
P.s. Cliccando qui trovate la mia recensione del romanzo “Suite francese” di Irène Némirovsky.

Parigi, 1970
In Rue La Fayette piccole barchette gialle e arancioni, cadute dai rami rinsecchiti, si lasciavano cullare nelle pozzanghere lungo il viale alberato. Il vento pungente costringeva i passanti a sollevare il bavero dei cappotti, come fosse uno scudo per combattere il freddo al quale andavano incontro a capo chino.
Quella mattina la pioggia aveva risvegliato la città sotto un cielo plumbeo e incerto. Nonostante ciò, Lucile aveva deciso di prendere posto al solito tavolino all'aperto, il terzo a destra fuori dalla porta, sotto la fioriera di ciclamini appesa alla finestra.

Si domandava se avesse fatto la cosa giusta accettando il suo appuntamento. Chiuse gli occhi e la sua mente si riempì dei ricordi che la legavano a lui: la guerra, l'occupazione nazista, il piccolo paesino di Bussy, l'enorme villa Angellier che era costretta a condividere con la suocera e le lunghe giornate vissute nella solitudine in attesa della liberazione di Gaston. E poi, quella terribile scoperta.

Lucile spalancò gli occhi per scacciare le immagini di quel passato che ormai non le apparteneva più. In quel momento desiderò stringere tra le dita una sigaretta, anche se erano passati dieci anni dall'ultima volta che aveva fumato.
Nel frattempo, aveva ordinato un latte macchiato e, in attesa che lui facesse capolino tra la folla di passanti, stringeva tra le mani la tazza colma e bollente. Lo avrebbe di certo individuato a colpo sicuro, così alto e impettito nel suo incedere impeccabile.

Un raggio di sole, sbucato da una soffice nuvola scremata di grigio, le illuminò gli zigomi delicati. Le sue labbra si distesero al contatto con quel tocco di calore che intiepidiva la pelle sottile e increspata.
I grandi occhi scuri di Lucile schizzavano da un volto all'altro così veloci da sembrare dita impazzite che eseguono al pianoforte una melodia di Franz Liszt. Per suonare Liszt alla perfezione ci aveva impiegato quasi vent'anni, ma cogliere lui tra la folla fu un attimo.

Eccolo. Avanzava impettito e le lunghe gambe conquistavano metro dopo metro la strada verso di lei. Arrivato dinnanzi al tavolino dove Lucile era seduta, l'uomo si mise sull'attenti, mentre lei, alzandosi di scatto, per poco non rovesciò la tazza fumante.
Lucile, sei proprio tu! - le disse prendendole le mani e chinandosi in un perfetto baciamano. Lucile avvertì subito il suo timbro di voce più morbido, meno spigoloso di quello di allora.
Bruno, quanto tempo, sussurrò lei.
Sei sempre così bella, Lucile, proprio come allora.
Anche tu sei tale e quale, Bruno.

Entrambi sapevano di essere invecchiati in quei trent'anni: i lunghi capelli di lei, una volta color del miele, erano ormai scuriti dalle tinture e dal tempo, mentre la chioma sottile e bionda di lui era oggi ingrigita. Eppure, nel momento in cui si trovarono seduti l'una di fronte all'altro, fu come ritornare a quell'autunno del 1941. Lui non le aveva ancora lasciato le mani, così sottili e affusolate, quando il cameriere li riportò al presente per chiedere a Bruno cosa volesse ordinare.

Bruno liberò la presa e Lucile nascose le mani sotto al tavolo. Sembrava una bambina che riceve una bacchettata dalla maestra e prova vergogna di fronte all'intera classe.
Scusa, non volevo - le disse.
Non è niente – arrossì lei mostrandogli le mani – ma cerco di averne cura, sai, per il mio lavoro.
Si accorse subito che quanto aveva appena detto era una giustificazione banale che mal celava il suo imbarazzo, ma Bruno fu pronto a riportare la conversazione sulla giusta via.
Già, Esteban dice che sei una pianista eccezionale. E pensare che quando ci siamo conosciuti non osavi avvicinarti al pianoforte.
Eravamo in guerra – sospirò Lucile – ed era fuori discussione suonare qualsiasi musica per rispetto delle circostanze. E poi, mia suocera mi avrebbe dato il tormento. – Già, la vecchia Madame Angellier non ti ha certo reso la vita facile. Chissà di cos'altro ti avrebbe accusata se ti avesse visto suonare il piano, magari in un duetto insieme a me, erklärter Feind [nemico dichiarato].

Pronunciando quelle parole, la voce di Bruno era tornata per un attimo vigorosa e dura come quella di un tempo.
Povera Madame, non posso certo biasimarla. La casa occupata da un ufficiale tedesco e il figlio prigioniero in Polonia. I suoi silenzi, la sua paura e il distacco con cui si approcciava a te erano comprensibili.
Questo te lo concedo, Lucile, ma è stata ingiusta con te. Sin dal primo istante in cui sono entrato nella vostra casa ho notato la sua freddezza nei tuoi confronti. Dopotutto, eravate nella medesima situazione. In te avrebbe trovato un'alleata, un sostegno, e invece ti trattava come una presenza sgradevole.
Era la madre di mio marito, che altro potevo fare, allora? Mi accusava di non amare abbastanza Gaston e di non essere affranta quanto lei per la situazione. Come se non lo sapesse che mi aveva sposata solo per le ricchezze di mio padre.
Nella lettera mi hai raccontato che Gaston si è salvato…
Sì, è sopravvissuto al tifo e ha fatto ritorno a Bussy alla fine della guerra. Lui è tornato, io me ne sono andata.

Gli occhi di Lucile brillavano di orgoglio mentre ripercorreva i momenti in cui aveva detto a suo marito che lo stava lasciando, sbattendogli in faccia l'atto di acquisto dell'appartamento in città che lui aveva comprato all'amante, per giunta con i soldi che suo padre le aveva lasciato in eredità. Che stupido, Gaston, così spavaldo da pensare che lei non avrebbe mai trovato quel foglio, nascosto malamente tra le scartoffie del suo studio.

Avresti dovuto vedere la faccia di mia suocera il giorno in cui ho fatto le valige e me ne sono andata per venire qui a Parigi.
L'ho sempre saputo che dietro la tua dolcezza si nasconde un guerriero. Quando mi hai scritto che hai affrontato l'amante intimandole di lasciare l'appartamento, sono rimasto incredulo.
Vivo ancora in quell'appartamento. Ormai è la mia casa. All'inizio è stato molto difficile, avevo una rendita ma allora la città era da ricostruire. Poi, poco a poco, la vita di noi francesi è tornata alla normalità, o quasi. La distruzione, la morte dei soldati, lo sterminio dei campi, è stato tutto così disumano.
A queste parole Bruno serrò la mascella, contraendo i muscoli del collo e scaricando la tensione sulle larghe spalle. Se Lucile se ne accorse, non lo diede a vedere. Ma qualcosa, nel suo tono, si era incrinato.
 
Raccontami di te, ora. Mi hai scritto che adesso vivi in Argentina. Sono curiosa di sapere come ci sei finito, a Buenos Aires. Nella tua lettera sei stato piuttosto vago.
Dopo essere partito da Bussy, io e i miei uomini siamo stati spostati in molti altri villaggi della Francia. Vivevamo alla giornata, sempre in attesa di nuovi ordini. Alla fine della guerra sono stato rimpatriato e come è andata a finire è ormai sui libri di storia. Lucile, sappi che non smettevo di pensare a te. Avrei voluto tornare da te, non appena le acque si fossero calmate, ma non potevo certo dimenticare di avere una moglie, in Germania. Era malata, per giunta. Morì pochi anni dopo. Ero ormai consumato dal dolore, mi sentivo svuotato per tutte le brutture che avevo visto in guerra, i morti, il distacco da te e la malattia che consumò mia moglie.
Speravo, un giorno o l'altro, di poterti rivedere, Bruno. Ma di anni ne sono passati quasi trenta. Perché non sei tornato in Francia, da me, quando tua moglie morì?
E' stato molto difficile, per me, superare i traumi della guerra. Ancora oggi mi sveglio, nel cuore della notte, cercando riparo dalle granate sotto le coperte. Dopo la morte di mia moglie, mio cugino mi propose di imbarcarmi con lui per l'Argentina e, senza pensarci troppo, lo feci.
Già, chissà di quanti orrori sei stato testimone. Quanti morti – rimarcò quasi con stizza – avrai visto con i tuoi occhi. E così, in Argentina, ti sei fatto una nuova vita.
Esatto. Ho iniziato a lavorare in una fazenda e oggi sono il proprietario di una multinazionale del grano.
Ed è arrivato Esteban..
Sì, nel 1950 mi sono sposato con la figlia del proprietario di quella fazenda e nello stesso anno è nato Esteban. Viviamo in una grande casa di campagna. Sai? Dovresti venire a trovarci, potresti prenderti una vacanza.
Parigi e il conservatorio sono la mia vita. Non potrei stare un solo giorno senza il mio pianoforte e i miei allievi.

Esteban mi ha raccontato che segue le tue lezioni con entusiasmo.
Sì, se la cava piuttosto bene. Il primo giorno del corso stavo quasi per svenire quando sul registro ho letto il suo nome, Esteban von Frank. Pensai che fosse uno scherzo. Riconobbi subito il tuo cognome e in lui vidi i tuoi occhi e la tua fierezza, ma non sapevo spiegarmi come potessero appartenere a uno studente di Buenos Aires che aveva vinto una borsa di studio per Parigi.
Avresti dovuto vedere la mia faccia quando Esteban mi raccontò della sua insegnante preferita, Madame Lucile Delacroix. Anche se avevi ripreso il cognome da nubile, dalla delicatezza e dalla grazia con cui ti descrisse, capii subito che si trattava della mia Lucile.
Sei mai tornato in Germania, Bruno? – domandò lei con tono deciso.
No, ho interrotto ogni contatto con i pochi parenti che mi sono rimasti ad Hannover.

Bruno aveva nuovamente perso il morbido accento acquisito in trent'anni passati a parlare lo spagnolo.
Lucile stringeva sempre più forte la tazza ormai vuota. Sul fondo erano rimasti i granelli di zucchero che non si erano sciolti e il bordo bianco indossava una collana di impronte di tenue rossetto rosa.

A Norimberga, invece, ci sei mai stato?
Che cosa stai insinuando Lucile? Ma che ti prende? Pensavo che ti avrebbe fatto piacere incontrarmi.
L'ultima notte che hai passato a Bussy hai parlato con un tuo sottoposto al telefono e io ho ascoltato l'intera conversazione. Tu sapevi tutto, fin dal '41! Sapevi dei primi campi di concentramento, sapevi che con i tuoi ordini mandavi a morire centinaia di innocenti in Polonia e in Germania. Non voglio nemmeno pensare a quanta gente tu abbia tolto la vita. E dicevate di essere in Francia solo per tenere sotto controllo la parte occupata della nostra nazione. Balle! Hai fatto molto più di quello che mi hai lasciato credere!
Lucile, lascia che ti spieghi. Io eseguivo solo gli ordini che ricevevo dall'alto. Non ho mai...
La mano di Lucile, gelida e leggermente tremante, calò sulla bocca di Bruno.
Taci! Non voglio sentire una sola parola. Tua moglie ed Esteban sanno del tuo passato e della fuga in Argentina?

Papà! Madame Delacroix!
Una voce gioiosa che proveniva dalla strada si intromise nella conversazione, giusto in tempo per evitare a Lucile di andarsene. Esteban li raggiunse in un attimo.
Esteban! Sono felice che tu sia qui – mormorò Bruno in una contrazione che voleva essere un sorriso.
Il ragazzo prese posto al tavolino.
Immagino che tu e Madame Delacroix vi siate già raccontati molte cose. E il merito di questo incontro è mio.

Esteban gongolava in un sorriso sornione, compiaciuto per aver fatto da messaggero tra il padre e la donna presso cui era stato ospite durante la guerra. Era tanta in lui la gioia che non si accorse di quanto Bruno e Lucile fossero irrigiditi sulle sedie.
In un gioco di sguardi, in cui ciascuno cercava gli occhi dell'altro senza incrociarli, fu il cameriere a irrompere sulla scena per prendere l'ordinazione di Esteban.

Lucile, spinta dalla rabbia, colse l'occasione: mentre Esteban e Bruno rivolgevano la loro attenzione al cameriere, lei si alzò e, quasi facendosi scudo con l'uomo in piedi al tavolino, si congedò: – È stato un piacere rivederti, Bruno.
Se ne andò senza aspettare una risposta. Non poté nemmeno vedere i volti stupiti di padre e figlio che la osservarono mentre veniva inghiottita dalla folla di passanti di Rue La Fayette.

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