mercoledì 8 giugno 2016

FUOCOAMMARE



di Gianfranco Rosi
Italia, 2016

Un anno intero passato a vivere su un lembo di terra di 20 km² in mezzo al mar Mediterraneo e con una telecamera in spalla, a filmare la vita degli isolani e gli sbarchi degli immigrati. È così che nasce Fuocoammare, il documentario di Gianfranco Rosi che racconta di Lampedusa.
Lampedusa, isola molto più vicina alle coste africane che non a quelle italiane, è certamente nota a tutti per gli sbarchi dei profughi che fuggono da molti Paesi dell’Africa e che raggiungono proprio quest’isola ubicata nel Canale di Sicilia alla ricerca della salvezza.
Rosi ha girato personalmente tutte le scene, senza l’aiuto di nessuna troupe. Solo lui, la telecamera e l’isola nella sua purezza. Ha scelto di raccontare la vita degli abitanti di Lampedusa attraverso le vicende del piccolo Samuele, un bambino che proviene da una famiglia di pescatori.
Samuele è molto diverso dai bambini iper-tecnologici a cui siamo abituati oggi. Niente tv, cellulare o videogiochi. Gli bastano pochi oggetti per costruire una fionda e divertirsi con l’amico, in mezzo alla natura, a dare la caccia agli uccelli.
Samuele rappresenta la genuinità di una popolazione che da vent’anni a questa parte si sta facendo carico di una tragedia che pare essere senza fine e senza soluzione. Eppure, Samuele non incontra mai nessun immigrato o, almeno, durante il periodo delle riprese. Il mezzo con cui lui e la sua famiglia si tengono aggiornati è la radio locale, che trasmette musica e notizie relative agli sbarchi.
È proprio alla radio che la nonna di Samuele, instancabile massaia che prepara manicaretti, affida una dedica con l’augurio che le condizioni meteo migliorino e i pescatori possano lavorare in mare. Chiede di ascoltare una canzone siciliana che si intitola “Fuocoammare”. Già in precedenza questa parola, “fuocoammare” ovvero il mare che va a fuoco, era stata evocata proprio da lei, quando racconta al nipote che ai tempi della Seconda Guerra Mondiale – quando Lampedusa era avamposto delle forze armate per la sua posizione centrale nel mar Mediterraneo – i bombardamenti riflettevano sul mare dei bagliori rossi come il sangue.
Nella vita della famiglia di Samuele non ci sono tv e programmi-spazzatura che puntano a spettacolarizzare la tragedia per far salire gli ascolti e che ci riempiono la testa di informazioni faziose o distorte, piene di pregiudizi. C’è solo lo sguardo innocente che vede senza filtri la situazione per quella che è (e che il regista sceglie di farci vedere). Eppure, un piccolo “difetto” c’è: Samuele ha un occhio “pigro”, che non vede bene come dovrebbe e saprebbe fare perché non manda le immagini al cervello. L’oculista prescrive al bambino un paio di occhiali e un occlusore, con il quale oscurare l’occhio sano per costringere l’occhio pigro a lavorare e recuperare la vista.
Questo dell’occhio potrebbe essere un fatto come un altro nella vita del ragazzino, ma potrebbe anche significare qualcosa di più: essere metafora della nostra condizione, quella di spettatori passivi dinnanzi alle tragedie dei profughi, che guardiamo ma non vediamo veramente, perché anche noi abbiamo l’occhio pigro, assuefatto dai pregiudizi alimentati dall’infotainment televisivo e dal razzismo.
Oltre alla famiglia di Samuele vi è anche un’altra presenza sull’isola che viene ripresa, quella preziosissima del Dottor Pietro Bartólo, il medico di Lampedusa. Oltre ad occuparsi degli abitanti in qualità di medico, Bartólo lavora al centro di accoglienza per prestare le prime visite e l’assistenza medica necessaria ai profughi che approdano sulla terraferma dopo i giorni passati in mare sulle navi.
Le condizioni in cui queste persone arrivano dal mare sono disperate ed è proprio Bartólo (unica voce esplicativa in tutto il documentario) a spiegare come funziona la traversata: in base a quanto pagano, dagli 800 ai 1.500 dollari, i migranti vengono stipati dai piani più bassi (nella stiva) a quelli più alti della barca. Vengono poi abbandonati in mare e recuperati dalle forze dell’ordine e dai volontari, che li traghettano sino all’isola di Lampedusa, dove ricevono le prime cure mediche e dove vengono anche ritrovati i cadaveri di coloro che non hanno superato il viaggio.
Il regista riprende due salvataggi e le scene sono oggettive, crude e reali, prive di commento: si sentono solo le incitazioni e le domande dei volontari e militari e le voci sommesse e disperate degli immigrati. Gli sbarchi si commentano da sé, senza il bisogno di un conduttore tv che descriva la tragedia per suscitare compassione ed inutili sentimentalismi.
La tragedia non è gridata, è presentata così come la vedono quotidianamente coloro che ne fanno parte, che la subiscono o che la arginano.
Sono poche le scene forti, ma quelle poche bastano per imprimere nella memoria la portata dell’evento e la sofferenza vissuta dai naufraghi e a ricordarci che questa tragedia si sta ripetendo ormai da anni senza che venga trovata alcuna soluzione per aiutare i profughi e supportare gli abitanti di Lampedusa a far fronte a quella che viene banalmente definita “emergenza”, che dura però da oltre vent’anni e che, per definizione, non può più essere tale.
Inutile dire che Fuocoammare è un film che tutti dovremmo vedere e che, magari, ci dovremmo mettere tutti un occlusore come il piccolo Samuele per sforzarci di capire davvero la portata di questi eventi e il dolore di questa gente che viene dal mare. 

Nessun commento:

Posta un commento